Da quando don Bosco comincia a impegnarsi nella costruzione del santuario di Maria Ausiliatrice, si ha l'impressione che venga incapsulato, quasi imprigionato dalla sua opera. La storia, che gli scorre accanto, sembra non toccare più la sua vicenda.
È cominciata, sembra, la “storia salesiana” che procede parallela ma indipendente dall'“altra” storia. Con le sue tappe, i suoi successi, le sue battaglie private: la fondazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, la partenza dei missionari, l'inizio dei Cooperatori, le lotte dignitose ma aspre con la gerarchia torinese per l'indipendenza della Congregazione, le spossanti manovre romane per l'approvazione delle Regole salesiane.
La storia fuori del portone.
È un'impressione errata. La storia dell'Italia che continua la marcia faticosa verso l'unificazione, gli urti rabbiosi delle autorità politiche con la Chiesa, la storia “non ufficiale” con le lotte operaie, l'emigrazione massiccia, la tensione delle masse popolari a una migliore istruzione e cultura, s'intrecciano capillarmente con l'azione di don Bosco, la orientano, le apportano sensibilità nuove.
Per questo ci parrebbe pericoloso (e superficiale) ignorare i grandi avvenimenti che si verificano fuori del portone dell'oratorio.
Dopo la morte di Cavour (6 giugno 1861), ai vertici del governo si succedono per 15 anni un gruppo di persone che verranno chiamate “la destra storica”. Sono cresciute a fianco di Cavour, ma se ne hanno assorbito il mestiere politico, non possiedono le scintille della sua genialità. Sono i piemontesi Sella, Lanza e Rattazzi, i lombardi Jacini e Visconti Venosta, gli emiliani Minghetti e Farini, i toscani Ricasoli e Peruzzi, i meridionali Spaventa e Massari. Hanno la mentalità (e gli interessi) della ricca borghesia e dell'aristocrazia agraria.
Nel confronto con la Chiesa stanno saldi sulla linea cavouriana della separazione tra Stato e Chiesa, ma non rinunciano a colpire duramente il clero e i vescovi sospettati di essere rivendicatori dei diritti pontifici.
Di fronte alla “destra storica”, in Parlamento sta la sinistra. Ben diversa da ciò che oggi noi intendiamo per “sinistra”. I suoi componenti provengono anch'essi da aristocrazia e borghesia (su 22 milioni di italiani, il diritto di voto è riconosciuto a 400.000, e viene esercitato da 200.000).
Crispi, Depretis, Bertani, i principali esponenti della sinistra, hanno come programma moderate riforme democratiche (allargamento del diritto al voto) e una più decisa azione anticlericale.
L'Italia, prima ancora di occupare il Lazio e le tre Venezie, sta raggiungendo i 22 milioni di abitanti. Di essi, l'80% non sa né leggere né scrivere, mentre gli studenti universitari sono solo 6.500. Il 70% degli italiani risiede in campagna e lavora la terra. Solo il 18% è impiegato nell'industria. Il maggiore complesso industriale è l'Ansaldo, in Liguria, che impegna 1.000 operai. Le ferrovie hanno raggiunto la lunghezza di 2.000 chilometri. La flotta mercantile italiana è la terza del mondo, dopo quelle dell'Inghilterra e della Francia.
La lotta contro i briganti e la grande emigrazione.
Nel 1861, nell'Italia del sud, cominciò la guerra contro il brigantaggio, la pagina forse più tragica e dolorosa della nostra storia nazionale. I “briganti” erano bande armate rimaste fedeli ai Borboni, in qualche caso; ma il più delle volte erano soltanto nuclei di sbandati che si davano alla macchia e vivevano taglieggiando e depredando. “L'esplodere del brigantaggio - scrive Francesco Traniello - mise in cruda luce i limiti della politica seguita dalla destra liberale. L'unificazione nazionale era sentita come un'imposizione dall'alto, una vera e propria " conquista " in molte parti del Mezzogiorno”.
I politici della Destra avevano un cordiale disprezzo per il sud: “Altro che Italia - scriveva nel 1861 Farini -, questa è Africa: i beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fiore di virtù civile”. Combatterono quindi il brigantaggio senza curarsi di affrontarne le cause di fondo: l'analfabetismo che toccava il 90% della popolazione, la secolare miseria, la disperata ribellione delle popolazioni contadine contro uno Stato che aveva imposto tasse pesantissime e portava via i giovani con la leva militare obbligatoria.
La lotta contro il brigantaggio fu una vera guerra, condotta da un esercito di 120.000 uomini, con battaglie, stati d'assedio, tribunali militari, fucilazioni.
I “briganti” uccisi nei cinque anni 1860-65 furono oltre 5.000. La guerra fu vinta, ma i problemi del sud rimasero. E i meridionali, calpestati e umiliati, iniziarono quel triste fenomeno di fuga che fu chiamato “emigrazione”. “Negli anni immediatamente successivi al 1861 - scrive Michele Maratta - l'emigrazione italiana assunse un carattere di massa, con una media annua di 123.000 emigranti. Dopo il 1876 toccherà punte di mezzo milione all'anno”.
Don Bosco, mandando i suoi primi missionari in Argentina, dirà loro: “Andate, cercate questi nostri fratelli, che la miseria e la sventura portò in terra straniera”.
Guerriglia a Torino.
Nel 1862 riprese, aspro, lo scontro tra Stato italiano e Santa Sede per il possesso di Roma. Garibaldi, con il consenso tacito del primo Ministro Rattazzi, lasciò Caprera, sbarcò a Palermo e preparò una spedizione per la conquista del Lazio e della città di Roma. Solo di fronte alle violente reazioni di Napoleone III e dei cattolici italiani, il governo decise di far intervenire le truppe regolari per fermare Garibaldi, già sbarcato in Calabria.
Il 29 agosto avviene lo scontro ai piedi dell'Aspromonte. I bersaglieri del colonnello Pallavicini feriscono e catturano Garibaldi.
Il 15 settembre 1864 l'Italia firma una convenzione con Napoleone. L'imperatore accetta di ritirare le truppe francesi schierate a difesa del Papa, e il governo italiano s'impegna a rispettare la sovranità papale su Roma. Come prova di buona volontà s'impegna a trasportare la capitale del Regno da Torino a Firenze.
Appena questo impegno viene conosciuto a Torino, la città prende fuoco. Seimila persone, il 20 settembre, si ammassano in Piazza Castello a urlare “Abbasso il re, viva la repubblica!”.
Il giorno dopo, la folla si raduna minacciosa in piazza San Carlo, a tumultuare contro la Gazzetta del Popolo. A un tratto, dalle vie laterali, piombano sulla folla pattuglioni di guardie di pubblica sicurezza con le sciabole sguainate. Feriti e morti. La folla si disperde, però torna a riunirsi poche ore dopo, e prende d'assalto la Questura.
In piazza Castello, intanto, si svolge una manifestazione pacifica. Ma i nervi sono ormai a fior di pelle. Uno squadrone di carabinieri riceve l'ordine di sparare sulla folla: dieci morti rimangono sul lastricato. A questo punto la furia popolare si scatena: gli uffici della Gazzetta sono distrutti da una violenta sassaiola, le botteghe degli armaioli prese d'assalto. La gente si arma. Il ministro degli Interni, temendo una guerra civile, fa affluire in città 28.000 soldati e cento cannoni. Le artiglierie vengono piazzate sul Monte dei Cappuccini, con le bocche rivolte al centro della città.
La sera di quel 21 settembre, don Bosco raccoglie tutti i giovani sotto i portici, e insieme pregano per Torino e per i suoi abitanti.
Il giorno 22, i tumulti ricominciano alle 9,30. Una fila di carabinieri che difende la Questura è presa sotto una grandine di sassi. Due sono colpiti gravemente. Esasperati, i loro compagni cominciano a sparare ad altezza d'uomo: 26 morti.
Il re, sdegnato, chiede le dimissioni del governo. Nuovo primo Ministro è nominato il generale La Marmora. I tumulti cessano, ma la capitale viene trasportata velocemente a Firenze.
Torino si sente tradita.
Crisi religiosa: Bibbia e listini di borsa.
Ma anche il Papa si sentì tradito. Pio IX, vedendosi abbandonato dalla protezione militare di Napoleone III, si irrigidì nelle sue posizioni anti-liberali. Con il documento chiamato Sillabo condannò in blocco le “dottrine moderne”. Nelle ultime righe del documento il Papa negava che la Chiesa “possa e debba riconciliarsi e venire a patti con il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna”.
Il Papa, insieme a moltissimi ambienti cattolici, era spaventato dalla grave crisi religiosa che sembrava cambiare la faccia al mondo.
“I nuovi ceti dirigenti e imprenditoriali - citiamo dal Traniello - preferivano la lettura dei listini di borsa a quella della Bibbia. Le nuove masse proletarie, sradicate e sfruttate, si convertivano alla lotta di classe più facilmente che alle beatitudini evangeliche. Le migrazioni dalle campagne alle città, i forzati cambiamenti di mestiere e di occupazione, le nuove condizioni di vita e in generale la dissoluzione del vecchio tessuto sociale, provocavano profonde mutazioni nei modi di pensare, sottraevano vaste categorie di persone ai parroci e ai pastori. Tutto ciò pareva un rifiuto dei tradizionali principi cattolici, un abbandono o un'attenuazione della pratica cristiana, e soprattutto una ribellione alle autorità ecclesiastiche, rimaste legate molto spesso a un mondo ormai finito”.
Questa situazione di crisi, che raggiungerà il suo culmine con la conquista di Roma da parte delle truppe italiane nel 1870, porta i cattolici ad arroccarsi, a organizzarsi come “uno Stato dentro lo Stato”. Per salvare i propri valori e formare le nuove generazioni in un clima cristiano, i cattolici creano (accanto agli organismi statali anticlericali) enti di mutuo soccorso “cattolico”, banche popolari “cattoliche”, società assicurative “cattoliche”, scuole e collegi “cattolici” per l'educazione dei loro figli.
Don Bosco vive in pieno questo momento della storia italiana. Punta buona parte delle sue energie ad aprire “collegi e scuole cattoliche”, fino a far vivere alla sua Congregazione una “nuova fase”: quella dei collegi. Ne parliamo ampiamente nella seconda parte di questo capitolo.
La storia non ufficiale dei lavoratori.
Accanto alla storia dell'Italia ufficiale, si svolgono altri avvenimenti, spesso dimenticati dai libri che narrano la “grande” storia.
Sono, questi, gli anni della “grande miseria” della povera gente. Gli operai in Piemonte lavorano nelle fabbriche 12 ore al giorno con salari da fame, senza mutue, senza assicurazione alcuna. I contadini, che sono la stragrande maggioranza come già abbiamo accennato, a marzo portano ancora i loro figli di 10-12 anni sulle piazze del mercato, perché siano “affittati” dai proprietari terrieri. Avveniva già ai tempi di Giovannino Bosco. Avverrà per tanti anni (in certi paesi della Puglia avviene ancora nel 1979). Le fanciulle curano la “lunga treccia” dei loro capelli. La taglieranno e la venderanno quando avranno diciott'anni: la più grossa “entrata” per cominciare a prepararsi il corredo da sposa.
Anche dal Piemonte, privo di leggi sulla regolamentazione del lavoro e sulle previdenze sociali, partono folle di migranti: stagionali verso la Francia e la Svizzera, definitivi verso l'America.
Nel 1864, a Londra, nasce la “Prima Internazionale dei Lavoratori”. All'inizio è composta da tre principali correnti: Il sindacalismo inglese, che punta a riforme graduali per migliorare la condizione degli operai, per farli partecipare più direttamente all'attività politica; i seguaci del socialista francese Proudhon, che rifiutano la lotta di classe e il comunismo marxista, e cercano di organizzare “cooperative operaie” per sopprimere lentamente il capitalismo; i mazziniani che hanno costituito in Italia 450 “società operaie” con 120.000 iscritti. Poco alla volta, però, l'Internazionale verrà dominata da Marx, che con successive “epurazioni” farà fuori chi non la pensa come lui e imporrà le sue idee comuniste.
Nello stesso 1864 mons. Ketteler, vescovo di Magonza, pubblica La questione operaia e il cristianesimo. È il programma del forte cattolicesimo sociale tedesco. Chiede l'intervento dello Stato per una legislazione sul lavoro e sulla previdenza sociale. Le leggi dovranno garantire un minimo salariale, limitare le ore di lavoro, garantire il riposo festivo, vietare il lavoro delle donne e dei fanciulli, provvedere alle assicurazioni sociali, ridare importanza alle “società intermedie” tra l'individuo e lo Stato: la famiglia, il comune, gli enti locali, le libere associazioni.
Sotto l'impulso di questi movimenti e delle lotte dei lavoratori, questi anni vedono conquiste lente e faticose. Nel 1864 il governo francese di Napoleone III riconosce agli operai il diritto di sciopero. Nel 1866 il governo tedesco di Bismarck concede a tutti il diritto di votare. I lavoratori possono per la prima volta mandare loro rappresentanti in Parlamento. Nel 1866 il governo belga riconosce i primi sindacati dei lavoratori (per le forti pressioni delle associazioni cattoliche). Seguiranno uguali riconoscimenti in Austria (1870), Inghilterra (1876), Francia (1884).
Dal 1° maggio 1866 inizia pure la “campagna internazionale” per portare la giornata di lavoro a 8 ore. Si contano 5.000 scioperi e moltissime manifestazioni. Dovunque la polizia e l'esercito reprimono duramente. A Chicago numerosi i morti, i responsabili della dimostrazione operaia sono impiccati.
Negli ultimi decenni del secolo, quasi tutti gli Stati europei riducono per legge la giornata lavorativa a 10 ore, vietano nelle fabbriche l'impiego a tempo pieno dei ragazzi al di sotto dei 13 anni, approvano norme sulla prevenzione degli infortuni, sull'igiene, sul riposo festivo. Tra il 1883 e il 1889, sollecitato dai cattolici del “Centro” e dai socialisti di Lasalle, il governo germanico introduce le assicurazioni obbligatorie contro infortuni, malattie e vecchiaia. Sarà presto imitato da Austria, Svizzera, Danimarca, Belgio e Italia.
La “tassa sulla fame”.
Nel 1868 la popolazione contadina italiana, già poverissima, fu colpita da una tassa iniqua, quella “sul macinato”. Veniva tassata pesantemente la macinazione del grano e dei cereali, e colpiva chi si cibava di pane e polenta, cioè i più poveri. Ci fu un'ondata di vere e proprie insurrezioni in tutto il Paese. “Contro i rivoltosi, sorti talvolta al grido di " Viva il Papa e gli austriaci " - scrive Francesco Traniello - fu impiegato ancora una volta l'esercito, con centinaia di morti e feriti. Il governo mantenne la " tassa sulla fame "“. Anche all'oratorio e nelle altre case di don Bosco, dove i suoi ragazzi “distruggono montagne di pagnotte”, la tassa sul macinato segna una crescita notevole delle spese: “Il caro del pane ci mette alla desolazione” scrive in quei mesi.
Nasce il “collegio salesiano”.
A cominciare dal 1863, con l'apertura del “piccolo seminario” di Mirabello, don Bosco è chiamato in molte parti d'Italia a fondare non oratori, ma collegi. Don Bosco accetta (aprendo però accanto a ogni collegio un oratorio).
La Congregazione salesiana si trova così impegnata nel giro di pochi anni in numerose scuole che impartiscono insegnamento elementare, secondario e professionale.
Come mai i salesiani di don Bosco, nati in un oratorio, diventano nel giro di pochi anni “specialisti del collegio per ragazzi del popolo”?
Abbiamo accennato al motivo nelle pagine precedenti. Ora diamo una risposta più completa citando Pietro Stella: “Il fiorire dei collegi cattolici, il loro moltiplicarsi, è proprio della seconda metà dell'Ottocento, quando la politica e la legislazione italiana venne via via avviata su basi liberali. Il dissidio profondo tra Italia legale, costituita dalla classe dirigente politica liberale, e Italia reale, costituita da larghi strati di opposizione cattolica e di altre forze allora in sviluppo (socialismo), ebbe come effetto nelle scuole pubbliche italiane l'orientamento aconfessionale e addirittura anticlericale (con aspre lotte sull'insegnamento della religione nelle scuole). Come contraccolpo ne derivò nei cattolici la tendenza a organizzarsi in tutto: creare associazioni religiose, enti di mutuo soccorso, banche popolari, società assicurative, collegi per l'educazione dei figli, puntando molto sulle classi della bassa borghesia e del popolo operaio e agricoltore, e creando quasi una società dentro la società statale.
Ci si spiega così come, dal 1863, si assiste a un moltiplicarsi di collegi, ospizi, scuole per artigiani, scuole agricole, seminari aperti o gestiti dai salesiani, e la loro preferenza per gli internati. Il collegio salesiano contribuì ad alimentare con un massiccio contributo di giovani leve, le forze cattoliche in Italia e nel mondo”.
“Educate i giovani poveri”.
Vennero chiamati ospizi le case per giovani artigiani. Si accettavano sempre e soltanto “ragazzi orfani e abbandonati”. Collegi furono invece chiamate le case per studenti, anch'esse decisamente orientate ai ragazzi poveri. Questa fu sempre volontà esplicita di don Bosco.
La sera del 7 marzo 1869, di ritorno da Roma, riferiva ai suoi salesiani alcune raccomandazioni di Pio IX: “Attenetevi sempre ai poveri figli del popolo. Educate i giovani poveri, non abbiate mai collegi per ricchi e per nobili. Tenete modeste le pensioni. Non accrescetele mai. Non prendete ad amministrare case ricche. Se educherete i poveri, se sarete poveri, vi lasceranno tranquilli e farete del bene”.
La realtà corrispose a queste direttive, e non soltanto nei primi anni. Nel 1875 don Bosco poteva scrivere: “Ad Alassio, Varazze, Sampierdarena, le finanze segnano zero”. Nel 1898, dieci anni dopo la morte di don Bosco, nell'Istituto di Bologna diretto dal suo ex segretario, erano ospitati 181 ragazzi. Gli orfani forniti di tutto gratuitamente erano 49. Solo 33 ragazzi pagavano la retta intera di 25 lire mensili. Tutti gli altri, 99, contribuivano con una somma che raggiungeva a stento la metà della retta. Le entrate annuali erano di lire 23.000, le uscite di lire 46.000. Un “sano” passivo del cento per cento.
I primi cinque collegi.
Nel 1864 fu aperto il collegio di Lanzo. Don Bosco vi mandò come direttore don Ruffino (24 anni) e sette chierici. La povertà e lo squallore furono i compagni dei primi mesi. “Un locale nudo, alcune muraglie rovinate per metà - scrisse il chierico Sala che sarebbe diventato economo generale della Congregazione -. Non c'erano né sedie né tavole. Givone preparò il rancio e lo mangiammo su una porta scassinata messa sopra due cavalietti. Le finestre senza vetri furono tappate con asciugamani e coperte. Dormimmo nella paglia”.
Nel primo anno gli alunni interni furono solo 37, insieme a una nuvola indisciplinata di esterni. In marzo il chierico Provera fu inchiodato da una malattia (aggravata dallo sfinimento) all'inattività completa. In luglio, colpito da tubercolosi, morì il giovanissimo direttore. Il collegio rimase affidato ai sei chierici superstiti. “Come lavoravamo! - ricordava don Sala -. Non volevamo che si dicesse che il collegio andava male perché eravamo solamente noi chierici”.
L'anno dopo andò a dirigerlo don Lemoyne, e le cose cominciarono a migliorare.
Nel 1870 si apre il collegio di Alassio. Direttore è don Cerruti, 26 anni.
Nel 1871 si apre un ospizio a Marassi, che un anno dopo verrà trasferito a Sampierdarena. Direttore è don Albera, 26 anni. Si comincia con tre laboratori per “ragazzi orfani e abbandonati”. Accanto alle scuole professionali, don Bosco vuole una sezione per ragazzi “che pensano alla vocazione sacerdotale”.
1871. Venti salesiani entrano nel Collegio Civico di Varazze. Li guida don Francesia, uno dei primissimi alunni di don Bosco. Questi venti salesiani hanno tenuto aperto per tre anni un collegio a Cherasco, ma hanno dovuto lasciarlo.
Don Bosco venne a visitare il collegio, e parlò ad una folla di varazzini che l'applaudivano: “Per mantenere i ragazzi - disse ridendo - non ho bisogno di gente che batte le mani in aria, ma di gente che batte le mani... in tasca! Se giunta l'ora del pranzo mi metterò solo a battere le mani, i ragazzi staranno freschi”.
Nel 1872 don Bosco accetta il collegio di Valsalice, per giovani di famiglie aristocratiche.
È un momento pesante per la Congregazione. Una società di sette sacerdoti di Torino ha aperto sulla collina torinese un collegio per giovani nobili, ma le finanze sono andate a rotoli. Il nuovo Arcivescovo di Torino, mons. Gastaldi, già in relazioni tese con i salesiani, chiama don Bosco e gli impone di prendere lui il collegio. Don Bosco non ne vuole sapere. Anni prima ha affermato: “Questo no! Non sarà mai finché vivrò io! Sarebbe la nostra rovina”. Ma l'Arcivescovo è pronto a imporglielo per obbedienza.
Don Bosco sottopone la questione al giovane Capitolo della Società, e tutti danno
parere negativo. Sale a Lanzo per domandare consiglio a don Lemoyne, e si sente rispondere: “Rifiuti. Non ci ha detto e ripetuto che l'accettar collegi di nobili segnerebbe la decadenza della nostra Congregazione, e che noi dobbiamo sempre tenerci ai poveri figli del popolo?”.
Alla fine, per evitare l'urto con l'autorità ecclesiastica, don Bosco accetta a denti stretti. Per cinque anni questo collegio è una pietra pesante per la Congregazione. Pochissimi gli alunni, ingenti le spese.
L'oratorio di Valdocco deve intervenire con forti contributi. Don Bosco esclama con amarezza:
- Tocca ai poveri provvedere ai ricchi!
Finalmente, nel 1887, divenuto proprietario della casa dopo avere sborsato uno somma ingentissima (130.000 lire), don Bosco sostituisce i nobili con i chierici salesiani studenti. Un grosso cartello, sulla porta d'ingresso, annuncia la nuova destinazione del collegio: Seminario delle Missioni Estere. Il problema di coscienza di Valsalice, dopo 15 anni, è risolto.
La svolta che segna un principio fondamentale.
Nell'elenco delle nuove fondazioni ci fermiamo qui. Alla morte di don Bosco, le case della Congregazione, sparse in sei nazioni, saranno 64. I salesiani 768.
Ci permettiamo una considerazione conclusiva.
Dal 1864, accanto agli oratori, agli ospizi, sorgono i collegi salesiani.
L'oratorio festivo (e quotidiano dov'è possibile) rimane “la prima opera della Congregazione”. Lo affermano le Regole dei salesiani e lo dice la realtà della loro azione. Presso le grandi opere che si aprono in Italia e che presto si apriranno nei quartieri popolari dell'Argentina, della Spagna, del Brasile, rivive la splendida baraonda dell'oratorio di Valdocco. I successori di don Bosco insisteranno: ogni opera salesiana, un oratorio.
Ma don Bosco, a cominciare dal 1864, ha avvertito una nuova esigenza dei figli del popolo: scuole serie e qualificate che diano un'istruzione soda e cristiana. È una svolta per la sua Società: dalla baraonda oratoriana, un numero sempre maggiore di salesiani passa alle file ordinate dei collegi.
Non avendo esitato ad operare questa svolta, ci pare che don Bosco abbia fissato un principio fondamentale per la sua Congregazione:
l'elemento-base, immutabile della missione salesiana è la gioventù povera, i figli del popolo: ad essi i suoi salesiani dovranno adattare la loro opera con una lettura rapida e coraggiosa dei segni e delle esigenze dei tempi. In una parola: non la gioventù povera dovrà adattarsi ai salesiani e alle loro opere, ma i salesiani e le loro opere dovranno adattarsi alle esigenze della gioventù popolare.
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