Nell'ottobre 1844 don Bosco ebbe due sogni. Ne abbiamo accennato nel capitolo 18, ma ora dobbiamo riprenderli, allargando le citazioni. La prima la riportiamo dalle Memorie autografe di don Bosco, la seconda dalla relazione scritta fatta da don Barberis e don Lemoyne.
“La pastorella mi invitò a guardare a mezzodì. Guardando, vidi un campo, in cui era stata seminata meliga, patate, cavoli, barbabietole, lattughe, e molti altri erbaggi. " Guarda un'altra volta ", mi disse; e guardai di nuovo. Allora vidi una stupenda ed alta chiesa. Un'orchestra, una musica istrumentale e vocale mi invitavano a cantar messa. Nell'interno di quella chiesa era una fascia bianca, in cui a caratteri cubitali era scritto: Hic domus mea, inde gloria mea (Qui è la mia casa, di qui uscirà la mia gloria)” (Memorie, ed. Ceria, p. 136).
Il sogno delle tre chiese.
“Mi sembrò di trovarmi in una gran pianura piena di una sterminata quantità di giovani. Alcuni rissavano, altri bestemmiavano. Un nugolo di sassi si vedeva per l'aria, lanciati da costoro che facevano battaglia. Io stavo per allontanarmi quando mi vidi accanto una Signora che mi disse:
- Avanzati tra quei giovani e lavora.
Io mi avanzai, ma che fare? Non vi era locale da ritirarne nessuno. Mi volsi allora a quella Signora, la quale mi disse:
- Ecco del locale! - E mi fece vedere un prato.
- Ma qui non c'è che un prato -, diss'io. Ella rispose:
- Mio Figlio e gli Apostoli non avevano un palmo di terra ove posare il capo.
Incominciai a lavorare in quel prato, ammonendo, predicando, confessando. Ma riusciva inutile ogni sforzo se non trovavo un recinto con qualche fabbricato ove raccoglierli. Allora quella Signora mi disse:
- Osserva.
Guardando vidi una chiesa piccola e bassa, un po' di cortile e giovani in gran numero.
Ripigliai il lavoro. Ma essendo la chiesa divenuta angusta, ricorsi ancora a lei, ed essa mi fece vedere un'altra chiesa assai più grande con una casa vicina. Poi, conducendomi ancora un po' d'accanto, in un tratto di terreno coltivato, quasi innanzi alla facciata della seconda chiesa, mi soggiunse:
- In questo luogo, dove i gloriosi Martiri di Torino Avventore e Ottavio soffrirono il loro martirio, su queste zolle che furono bagnate e santificate dal loro sangue, io voglio che Dio sia onorato in modo specialissimo.
Così dicendo, avanzava un piede posandolo sul luogo ove avvenne il martirio, e me lo indicò con precisione. Io volevo porre qualche segno per rintracciarlo, ma nulla trovai intorno a me. Tuttavia lo tenni a memoria con precisione.
Intanto io mi vidi circondato da un numero immenso e sempre crescente di giovani; ma guardando la Signora crescevano anche i mezzi e il locale; e vidi poi una grandissima chiesa precisamente nel luogo dove mi aveva fatto vedere che avvenne il martirio dei Santi della legione tebea, con molti edifici tutto all'intorno e con un bel monumento nel mezzo”.
Don Bosco aveva sempre tenuto d'occhio il “campo seminato a meliga, patate, cavoli, barbabietole, lattughe e altri erbaggi”, che aveva riconosciuto proprio al di là del muro che circondava il suo oratorio. Lo aveva ribattezzato “il campo dei sogni”. Appena potè, il 20 giugno 1850, lo comprò. Ma nel 1854 (anno del colèra, dei venti orfani ricoverati tutti insieme) l'aveva dovuto rivendere per pagare alcuni debiti urgentissimi. Tornò tuttavia in sua proprietà l'il febbraio 1863. In quegli ultimi mesi, però, era già capitato qualcosa di nuovo.
“Sarà la chiesa madre della nostra Congregazione”.
Una sera del dicembre 1862, Paolino Albera (un ragazzo di 17 anni che proprio in quell'anno era stato accettato nella Società Salesiana) sentì una confidenza di don Bosco. Era sabato, don Bosco aveva confessato fino alle 23, e solo allora potè scendere, accompagnato da Paolino, a prendere un boccone di cena. Era soprappensiero, e a un tratto prese a dire: “Io ho confessato tanto, e per verità quasi non so che cosa abbia detto o fatto, tanto mi preoccupava un'idea. Mi distraeva e mi tirava quasi fuori di me. Pensavo: la nostra chiesa è troppo piccola; non contiene tutti i giovani. Quindi ne fabbricheremo un'altra più bella, più grande, che sia magnifica. Le daremo il titolo: chiesa di Maria SS. Ausiliatrice. Io non ho un soldo, non so dove prenderò il denaro, ma ciò non importa. Se Dio la vuole, si farà”.
Poco dopo, parlò di questo progetto anche a Giovanni Cagliero. Ecco la sua testimonianza: “Nel 1862 don Bosco mi disse che meditava di costruire una chiesa grandiosa e degna della Vergine SS.
- Sinora, disse, abbiamo celebrato con solennità la festa dell’Immacolata. Ma la Madonna vuole che la onoriamo sotto il titolo di Maria Ausiliatrice: i tempi corrono così tristi che abbiamo proprio bisogno che la Vergine SS. ci aiuti a conservare e difendere la fede cristiana. E sai tu un altro perché?
- Credo - risposi - che sarà la “chiesa madre” della nostra futura Congregazione, e il centro dal quale emaneranno tutte le altre opere nostre a favore della gioventù.
- Hai indovinato, mi disse: Maria SS. è la fondatrice e sarà la sostenitrice delle nostre opere”.
Una chiesa più grande che potesse contenere tutti i giovani, la “chiesa madre” della Congregazione. Questi i motivi-base per cui don Bosco progetta il santuario di Maria Ausiliatrice. Ma accenna anche ad un terzo motivo: I tempi corrono così tristi. Crediamo conveniente commentare queste parole, per non farle classificare come uno di quei “lamenti generici” che in ogni tempo fioriscono in bocca ai professionisti del rimpianto.
I fatti di Spoleto e l’Ausiliatrice.
La storia della Chiesa alla metà dell'Ottocento - scrive lo storico Giacomo Martina - “è caratterizzata da uno scontro violento tra vecchio e nuovo, fra strutture di una società ufficialmente cristiana e l'affermazione sempre più decisa della città secolare. Ne emerge il quadro di un periodo nodale nella storia della Chiesa, che ripropone i termini del confronto fra il cristianesimo e le culture delle diverse epoche storiche con le quali esso viene a incontrarsi”.
Uno dei momenti più acuti di questo “scontro violento” è la questione di Roma e dello Stato pontificio. Dopo la seconda guerra d'indipendenza - citiamo da Pietro Stella - lo Stato pontificio, giudicato dai cattolici indispensabile alla indipendenza del Papa, sembrava irrimediabilmente destinato a essere conquistato dal “Regno d'Italia”. I vescovi dell'Umbria, il 2 febbraio 1860, invitavano i fedeli a pregare Dio “per intercessione del Cuore Immacolato di Maria, Madre di Dio, Ausiliatrice dei Cristiani”.
Proprio in una cittadina dell'Umbria, Spoleto, avvenne secondo la voce popolare un grandioso miracolo. Nel marzo 1862, da un'antica immagine conservata in una chiesa diroccata, la Madonna parlò a un bambino di cinque anni e guarì un giovane contadino. Alla chiesa diroccata cominciarono ad arrivare pellegrini.
L'arcivescovo di Spoleto, mons. Arnaldi, mandò un'entusiastica relazione degli avvenimenti al giornale cattolico di Torino, l'Armonia. Diceva di imponenti pellegrinaggi in arrivo da Todi, Perugia, Foligno, Nocera, Narni, Norcia.
Lo stesso arcivescovo, nel settembre 1862, lanciò l'idea di un grande tempio sul luogo dei miracoli, dando all'immagine della Madonna (chiamata fino allora “Madonna della Stella”) il nome ufficiale di Aiuto dei Cristiani, Auxilium Christianorum.
Don Bosco lesse la relazione di mons. Arnaldi ai suoi giovani “con grande contentezza”. E proprio in quel tempo fece il grandioso sogno delle “due colonne”, che raccontò ai giovani il 30 maggio: la nave della Chiesa, guidata dal Papa, viaggia sicura tra l'impeto dei flutti e i proiettili scagliati da numerosissime navi nemiche. E trova finalmente rifugio presso due colonne tra cui il Papa getta l'ancora: la prima colonna è sormontata dall'Eucaristia, la seconda da una statua dell'Immacolata che porta la scritta Auxilium Christianorum.
Quest'insieme di “tempi tristi” e di grandi speranze costituiscono il terzo motivo che spinge don Bosco a iniziare l'impresa del santuario di Maria Ausiliatrice.
Un titolo che fa arricciare il naso.
L'incarico di preparare il disegno don Bosco lo affidò all'ingegnere Antonio Spezia, che sviluppò un progetto in forma di croce latina sopra una superficie di 1200 metri quadri. La lunghezza massima della chiesa era di m. 48.
Con il rotolo dei progetti sotto il braccio, don Bosco si presentò al municipio per l'approvazione. Sui disegni non si fecero osservazioni, anzi ci fu una promessa (puramente “a parole”) di estendere anche a questa chiesa il sussidio straordinario di lire 30.000 che il municipio concedeva per la costruzione di ogni chiesa parrocchiale. Ciò che invece fece arricciare il naso fu il titolo: Chiesa di Maria Ausiliatrice. I fatti di Spoleto, la lettera dei vescovi dell'Umbria, le polemiche sul giornale l'Armonia mettevano in sospetto le autorità municipali. Quel nome sapeva di contestazione.
- Non potrebbe cambiare quel titolo strano? La chiami chiesa del Rosario, della Pace, del Carmelo. La Madonna ne ha tanti titoli!
Don Bosco si mise a ridere:
- Voi approvatemi il progetto. Sul nome ci metteremo d'accordo. Non si mise affatto d'accordo: lo lasciò tale e quale.
Otto soldi per cominciare.
Ottenuta la licenza di costruzione, don Bosco affidò l'impresa al capomastro Carlo Buzzetti (il ragazzo, fratello di Giuseppe che aveva incontrato nella chiesa di S. Francesco d'Assisi, e che era diventato uno stimato costruttore di case). Chiamò l'economo don Savio e gli ordinò di far iniziare i lavori di scavo.
- Ma don Bosco, come faremo? Non si tratta di una cappella, ma di una chiesa molto grande e molto costosa. Stamane non avevamo in casa nemmeno i soldi per pagare i francobolli delle lettere in partenza.
- Comincia a fare gli scavi - gli rispose don Bosco -. Quando mai abbiamo cominciato un'opera avendo già i denari pronti? Bisogna bene lasciar fare qualcosa alla divina Provvidenza.
Gli scavi furono compiuti in parte nell'autunno del 1863, e ripresi nel marzo 1864.
Sul finire dell'aprile, per invito del capomastro, don Bosco accompagnato dai suoi preti e da molti allievi, scese negli scavi a gettarvi la prima pietra. Terminata la funzione si rivolse a Buzzetti e gli disse:
- Ti voglio dare subito un acconto per i grandi lavori.
Tirò fuori il borsellino, l'aprì e versò nelle mani del capomastro tutto ciò che conteneva: otto soldi, nemmeno mezza lira. Vedendo Buzzetti mortificato aggiunse subito:
- Stai tranquillo. La Madonna penserà lei a far arrivare il denaro necessario.
La Madonna ci pensò davvero, ma per farlo arrivare si servì di tutta la fatica e il sudore di don Bosco.
Chi studia le figure dei due grandi santi torinesi quasi contemporanei, il Cottolengo e don Bosco, è colpito da questa differenza. Entrambi furono aiutati giorno per giorno dalla Provvidenza, vissero di Provvidenza. Ma mentre il Cottolengo diceva: “La Provvidenza ha già preparato il denaro che ci occorre. Aspettiamo che arrivi”, don Bosco diceva: “La Provvidenza ha già preparato il denaro che ci occorre. Andiamolo a cercare”.
Don Paolo Albera, secondo successore di don Bosco, che visse accanto a lui quei tempi, diceva: “Solo chi ne fu testimone può farsi una giusta idea del lavoro e dei sacrifici che il nostro Padre s'impose durante questi anni, per condurre a termine la chiesa di Maria Ausiliatrice, da molti ritenuta un'impresa temeraria, troppo superiore alle forze dell'umile prete che vi si era accinto”.
Don Bosco spremette la sua immaginazione per forzare la carità pubblica. Inondò Torino e il Piemonte di lettere e circolari; aprì sottoscrizioni; sollecitò l'aiuto dei “grandi” del mondo a Torino, Firenze, Roma; organizzò una lotteria impressionante. Le offerte affluivano, ma non sempre in quantità sufficiente. Nel maggio del 1866 don Bosco scriveva al cavalier Oreglia: “I quaranta muratori che dovevano lavorare alla chiesa furono ridotti al numero di otto per mancanza di mezzi. È un momento per noi assai calamitoso”.
La Madonna fa la questua per don Bosco.
Se il “povero don Bosco” riuscì a superare tutte le difficoltà lo dovette all'aiuto dell'Ausiliatrice, che si mise lei “a fare le questue più fruttuose”. La voce di “grazie” piccole e grandi che la Madonna concedeva a chi aiutava la costruzione della chiesa si diffuse rapidamente in Torino e in molte parti dell'Italia.
La grazia più “clamorosa”, forse, fu quella del banchiere e senatore Giuseppe Cotta, già benefattore di don Bosco, e conosciutissimo negli ambienti politici e finanziari di Torino.
Mentre il senatore, ottantenne, giaceva ammalato senza che i medici gli dessero più alcuna speranza - narra don Lemoyne - don Bosco andò a trovarlo. L'ammalato riuscì a dirgli con un filo di voce:
- Ancora pochi minuti, poi bisogna partire per l'eternità.
- No senatore - ribatté allegro don Bosco -. La Madonna ha ancora bisogno di lei in questo mondo. Lei deve vivere per aiutarmi a costruire la sua chiesa.
- Non c'è più speranza - sospirò il vecchio.
La fede di don Bosco si alleò a una audacia tranquilla, quasi umoristica:
- E che cosa farebbe, se Maria Ausiliatrice le ottenesse la grazia di guarire?
Il senatore sorrise, raccolse le forze e puntò due dita verso don Bosco:
- Duemila lire. Se guarisco pago duemila lire per sei mesi alla chiesa di Valdocco. - Ebbene, io vado a far pregare i miei ragazzi, e l'aspetto guarito.
Tre giorni dopo il senatore arrivò davvero, guarito.
- Sono qui - disse a don Bosco -. La Madonna mi ha guarito e io sono venuto a pagare il mio primo debito.
Riferiamo solo due altre «grazie», anche se don Bosco, l’11 febbraio 1868, scriveva al cavalier Oreglia: “Ogni giorno cose una più strepitosa dell'altra di Maria Ausiliatrice per la chiesa. Ci vorrebbero volumi”. E al processo per la beatificazione di don Bosco, mons. Bertagna attestò sotto giuramento: “Durante un corso di Esercizi Spirituali a S. Ignazio, don Bosco mi chiese consiglio se avesse a continuare a benedire gli ammalati con le immagini di Maria Ausiliatrice e del Salvatore, poiché, diceva, si levava molto rumore per le molte guarigioni che succedevano e che avevano l'aria di prodigioso. Bene o male, io ho creduto di consigliare don Bosco a proseguire le sue benedizioni”.
Una mamma, un bambino e dei poveri gioielli.
Un giorno don Bosco era uscito in città. Rientrando all'oratorio, vide accanto alla portieria una povera madre che aveva in braccio un fanciullo di circa un anno, macilento, pieno di croste, immobile e senza voce. Sembrava un cadavere. Si fermò e domandò alla madre:
- Da quanto tempo è ammalato?
- È sempre stato così dalla nascita.
- L'avete fatto vedere ai medici?
- Sì, ma dicono che non c'è niente da fare.
- E voi sareste contenta che guarisse?
- S'immagini, il mio povero figliolo! -. E lo baciava.
- Credete che la Madonna possa guarire vostro figlio?
- Sì, ma non mi merito tanta grazia. Se me lo guarisse le darei lutto ciò che ho di più caro.
- Allora procurate, quando potete, di andarvi a confessare e a fare la Comunione. Per nove giorni dite il Padre nostro e l'Ave Maria, e invitate anche vostro marito a recitarli. La Madonna vi esaudirà -. E benedisse il piccino con la benedizione di Maria Ausiliatrice.
Quindici giorni dopo, di domenica, nella sacrestia del santuario, fra la gente che cercava di parlare con don Bosco, c'era una donna con in braccio un bambino dagli occhi limpidi e vivacissimi. Giunta alla presenza di don Bosco, tutta raggiante esclamò:
- Ecco il mio figliuolo.
- Che cosa desiderate, signora?
Don Bosco non ricordava più la benedizione data a quel bambino. La donna gliela ricordò, e gli disse che il terzo o il quarto giorno della novena, il bambino era guarito.
- Ora, continuò, sono venuta a compiere la mia promessa -. Così dicendo tirò fuori una scatola nella quale c'erano le sue povere gioie: una piccola collana d'oro, un anello, due orecchini. Don Bosco si commosse, forse ripensò a quelli quasi uguali di sua madre. La donna intanto diceva:
- Ho promesso alla Madonna che le avrei donato le cose più care, e la prego di volerle accettare -. Don Bosco scuoteva il capo:
- Mia brava donna, avete qualche fortuna per campare la vita?
- No. Viviamo giorno per giorno con la paga di mio marito che lavora alla fabbrica di ghisa.
- Siete riusciti a mettere da parte qualche risparmio?
- Che risparmio vuole che facciamo con tre lire al giorno?
- E vostro marito sa che volete donare questi oggetti alla Madonna?
- Sì, lo sa, e ne è contento.
- Ma se vi spogliate di tutto, come farete se vi accadrà qualche disgrazia, qualche malattia?
- Il Signore vede che noi siamo poveretti e ci penserà. Io debbo dare quello che ho promesso.
Don Bosco era profondamente commosso:
- Sentite, facciamo così. La Madonna non vuole da voi un sacrificio così grande. Se voi volete proprio darle un segno della vostra gratitudine, mi darete solo l'anello. La collana e gli orecchini li riporterete a casa.
- Questo no. Ho promesso tutto, e devo dare tutto. - Fate come dico io. La Madonna è contenta così.
- Ma sarà vero? Io non voglio mancarle di parola.
- Voi non le mancate di parola. We lo garantisco a suo nome. La donna sembrava ancora indecisa, poi concluse:
- Ebbene, faccia lei. Ma se vuole tutto il mio oro, lo prenda pure.
Don Bosco le ripetè di stare tranquilla, e fece una carezza al bambino.
Il bracciante di Alba.
Un pover'uomo era venuto a piedi da Alba, viaggiando giorno e notte. Si confessò, fece la Comunione, poi si presentò a don Bosco per compiere una promessa. Gli raccontò che era caduto ammalato. I medici gli avevano detto che era finita, e allora aveva promesso di portare alla Madonna tutto il denaro che aveva se fosse guarito. Era guarito subito. Don Bosco guardava quell'uomo poverissimo nel vestito, che ora aveva tirato fuori di tasca un pezzo di carta e lo srotolava con attenzione. Tra la carta apparve il denaro: una lira. La porse a don Bosco con solennità dicendo:
- Ecco tutto ciò che possiedo, tutte le mie ricchezze. - Che mestiere fate?
- Il bracciante. Vivo alla giornata.
- E come farete a tornare a casa?
- Farò come ho fatto per venire: a piedi.
- E non siete stanco?
- Un po', perché il viaggio è abbastanza lungo.
- Siete ancora digiuno?
- Certamente, perché volevo fare la Comunione. Prima di mezzanotte, però, ho mangiato un pezzo di pane che portavo in tasca.
- E adesso, per colazione, che cosa avete?
- Niente.
- Facciamo dunque così. Oggi fermatevi con me. Vi darò da colazione e da cena.
Domani, se così vi piace, ritornerete a casa vostra.
- Questa sarebbe bella! Vi porto una lira, e voi mi date da mangiare per due o tre lire! - Sentite: voi avete fatto la vostra offerta alla Madonna. E ora don Bosco vi fa la sua offerta: un po' di minestra e un bicchiere di vino.
- Le dico di no. Io so che don Bosco e la Madonna hanno la stessa borsa. Ecco, io riparto a piedi. Se avrò fame, chiederò l'elemosina. Se sarò stanco, mi siederà sotto un albero. Se avrò sonno, qualcuno mi lascerà dormire in un pagliaio. La mia promessa la voglio compiere sul serio. La saluto e preghi per me. E senz'altro ripartì.
I sogni di don Bosco – nota.
In questo capitolo abbiamo parlato di tre sogni di don Bosco: quello in cui vede “una grande chiesa nel campo della meliga”, quello “delle tre chiese”, e quello “delle due colonne”.
Mi sia permessa un'osservazione personale.
Sui “sogni di don Bosco” si sono scritte moltissime pagine. Il più delle volte serie e importanti. Qualche volta invece così bizzarre da far pensare che chi le ha scritte ha sognato più di don Bosco.
Per “spiegare” questi sogni e per “eliminare” ogni accenno di “straordinario” dalla vita di don Bosco, qualche studioso ha usato tutte le ipotesi di lavoro: dalla parapsicologia (che è oggi seriamente messa in discussione e negata dai migliori scienziati), alla “mitizzazione” da parte di chi riferiva fatti e detti di don Bosco (ed è indubbio che qualche testimone “mitizzò” alcune cose), fino all'accusa esplicita di falsa testimonianza.
Crediamo sia lecito fare “ipotesi di lavoro” e cercare di verificarle. Meno lecito ci pare prendere in considerazione tutte le ipotesi di lavoro meno una: l'intervento straordinario di Dio nella vita di don Bosco. Se si è onesti, si deve prendere in considerazione anche questa, e verificarla seriamente. Ora una verifica seria, da parte di uno storico, deve basarsi prima di tutto sul vaglio delle testimonianze, che nel caso di don Bosco sono molte volte “giurate” nei processi per la beatificazione. Negare a priori testimonianze giurate per arrampicarsi su dubbie teorie, significa che il lavoro storico non viene più eseguito con serietà ma con precomprensione. È scadere nei dogmi del positivismo (“il soprannaturale non è ammissibile, quindi è inutile prenderlo in considerazione”).
Noi non siamo specialisti in questo campo. Ma crediamo che per farci un'idea giusta sui sogni di don Bosco, sia innanzitutto importante conoscere il parere di don Bosco stesso, e poi di chi gli viveva accanto. (Questo non basta allo storico, evidentemente, ma è il punto di partenza per qualunque indagine seria).
Ci permettiamo quindi di riportare alcune citazioni di don Bosco e di chi gli visse accanto per tanti anni. Non ritocchiamo il testo, anche a costo di lasciarlo oscuro per chi non ha familiarità con l'italiano del 1800.
Sogno dei nove anni. Testimonianza autografa di don Bosco.
“La nonna che sapeva assai di teologia, era del tutto analfabeta, diede sentenza definitiva dicendo: " Non bisogna badare ai sogni ". Io ero del parere di mia nonna; tuttavia non mi fu possibile togliermi quel sogno dalla mente. Le cose che esporrò in appresso daranno a ciò qualche significato”.
Sogno della grande chiesa nel campo della meliga. Testimonianza autografa di don Bosco “Questo (sogno) mi occupò quasi tutta la notte; molte particolarità l'accompagnarono. Allora ne compresi poco il significato, perché poca fede ci prestava; ma capii le cose di mano in mano avevano il loro effetto. Anzi più tardi, congiuntamente ad altro sogno, mi servì di programma nelle mie deliberazioni”.
Testimonianza di don Bosco riferita da don Lemoyne.
“Nei primi anni io andava a rilento a prestare a questi sogni tutta quella credenza che meritavano. Molte volte li attribuiva a scherzi della fantasia. Raccontando quei sogni, annunciando morti imminenti, predicendo il futuro, più volte ero rimasto nell'incertezza, non fidandomi di aver compreso e temendo di dire bugie. Alcune volte mi confessai da don Cafasso di questo secondo me azzardato parlare. Mi ascoltò, pensò alquanto, poi disse: " Dal momento che quanto dite si avvera, potete stare tranquillo e continuare ". Però solo anni dopo quando morì il giovane Casalegno e lo vidi nella cassa sopra due sedie nel portico, precisamente come nel sogno, allora più non esitai a credere fermamente che quei sogni fossero avvisi del Signore”.
Testimonianza di don Lemoyne.
“Fino all'anno 1880 circa, don Bosco, raccontando i sogni, non aveva mai detto la parola visioni. Ma con me negli ultimi anni, benché non la pronunciasse mai per primo, pure assentiva alla frase usata da me in questi colloqui di confidenza”.
Testimonianza di don Berto, segretario di don Bosco per oltre 20 anni.
“Egli predisse assai prima che accadesse, la morte di quasi tutti i giovani dell'oratorio, notando il tempo e le circostanze del loro passaggio all'altra vita. Una volta o due avvertì chiaramente il giovane. Sovente lo fece custodire da qualche buon compagno; talora disse in pubblico le iniziali del nome. Queste predizioni, per quanto ricordo, posso assicurare che ebbero tutte il loro pieno adempimento. Qualche rarissima eccezione vi fu, ma tale che servì di conferma dello spirito profetico di don Bosco. Io don Berto testimonio oculare e auricolare scrivo queste cose.
Parere di don Ceria.
Questo biografo di don Bosco che compilò gli ultimi nove volumi delle Memorie Biografiche ed entrò in Congregazione tre anni prima della morte di don Bosco, nell'introduzione al voi. XVII classifica i sogni di don Bosco in tre gruppi:
- Sogni che non sono altro che sogni (come facciamo noi nelle notti di cattiva digestione): a rigore di termini non ci dovrebbero stare nella vita di don Bosco. Qualcuno fu riportato nelle Memorie Biografiche per conoscere più elementi possibili della vita di don Bosco.
- Sogni che non furono sogni ma vere visioni: avvenuti in pieno giorno, come la rivelazione sul futuro di Giovanni Cagliero.
- Sogni fatti di notte, che rivelano cose oscure o future.
È difficile però distinguere - osserva don Ceria - tra le tre categorie. Una volta, non sappiamo quando, don Bosco sognò di trovarsi in San Pietro, dentro la grande nicchia che si apre sotto il cornicione a destra della navata centrale, perpendicolarmente alla statua bronzea di san Pietro e al medaglione in mosaico di Pio IX. Egli non sa capacitarsi come sia capitato lassù. Vuole scendere. Chiama, grida, ma nessuno risponde. Finalmente, vinto dall'angoscia, si sveglia. Un sogno da cattiva digestione, si direbbe. Ma chi guarda quella nicchia di San Pietro in questo 1936 - continua don Ceria - vi vede la grandiosa statua di don Bosco dello scultore Canonica. E allora si capisce che la cattiva digestione non c'entrava.
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