Che Gesù sia la Parola del Padre non solo nel suo parlare con gli altri ma in tutta la sua esistenza, che include ogni umana azione e comportamento, è già stato detto. Quando egli parla e ammaestra esplicitamente, allora le sue parole hanno senso soltanto se introducono nelle dimensioni del suo essere intimo, della sua autocomprensione, della sua missione dal Padre, della sua vita dal Padre e verso il Padre.
del 01 gennaio 2002
Che Gesù sia la Parola del Padre non solo nel suo parlare con gli altri ma in tutta la sua esistenza, che include ogni umana azione e comportamento, è già stato detto. Quando egli parla e ammaestra esplicitamente, allora le sue parole hanno senso soltanto se introducono nelle dimensioni del suo essere intimo, della sua autocomprensione, della sua missione dal Padre, della sua vita dal Padre e verso il Padre. La parola parlata è come la punta di un triangolo che poggia a terra e che si apre in alto verso l'infinito. La sua parola è solo l'occasione offerta di ascendere verso questa apertura. La parola invita in primo luogo gli stanchi e oppressi: «Venite a me, io (non la mia parola) vi ristorerò» (Mt 11,28). Ma un logos concluso in se stesso non potrebbe ristorare ma solo prosciugare, se non venisse da più lontano di se stesso, dalla fonte originaria del Padre, e se non rimandasse più lontano di se stesso, poiché può offrire l'acqua che proprio in chi si disseta «sgorga in vita eterna» (Gv 4,14), lo Spirito Santo.
Questo solo è il senso del suo parlare. Dove il vertice della parola parlata non si apre verso l'alto («non si accorgevano che parlava loro del Padre») li egli interrompe il dialogo, sebbene «abbia ancora molto da dire e da giudicare su di voi. Ma perché parlo ancora con voi?» (Gv 8,25). Questa interruzione del dialogo - che già nella maggior parte dei dibattiti del vangelo di Giovanni era un «dialogo tra sordi» - avviene definitivamente nella passione, dove ogni invito a penetrare nelle profondità del Logos è inutile già dall'inizio. Così Gesù tace davanti a Caifa (Mt 26,63), davanti a Erode(Lc 23,9) e infine anche davanti a Pilato(Mt 27,12.14; Gv 19,19) e parla solo col suo silenzio: «Egli fu maltrattato e si lasciò umiliare e non aprì la bocca, come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori» (Is 53,7). È il compimento di quel tacere di Dio, per il quale non ha più senso parlare, per cui incatena anche il suo profeta Ezechiele e lo fa ammutolire (Ez 3,25 ss.). Questi parlerà solo per gesti simbolici (come anche le stazioni della Via Crucis di Gesù sono parole dette da muti gesti) fino al giorno in cui uno scampato da Gerusalemme comunicherà agli esiliati la rovina della città e il popolo riconoscerà che la parola di Jahwe è veritiera (Ez 24,27; 33,22).
Ma ciò si realizza evangelicamente nelle parole di Gesù in croce quando proclama l'ultima verità del Padre nel grido dell'abbandono, ma contemporaneamente si abbandona con un alto grido nelle mute mani del Padre per essere nel giorno della morte, al Sabato santo, l'inespressa ma tuttavia tonante parola.
Bisogna dire in primo luogo che il silenzio di Dio e di Gesù non è mai insignificante. una modalità che, più forte di qualsiasi proclamazione, rivela il suo vero essere. Ignazio di Antiochia ne sapeva molto su questo tema e ne parla già nell'ambito della propria passione: «Meglio è tacere ed essere che parlare e non essere. È cosa buona insegnare se chi parla pratica ciò che insegna. Uno solo è il maestro (Cristo), che disse e fu fatto e le opere che egli compì nel silenzio sono degne del Padre. Chi comprende veramente la parola di Gesù è in grado di capire anche il suo silenzio, per giungere cosi alla perfezione e per operare (come Gesù) attraverso la sua parola ed essere conosciuto attraverso il suo silenzio» (Ef 15,1-2). Gesù agisce qui non, solo parlando ma anche tacendo e colui che lo segue in ciò può essere esortato dal suo silenzio: è dunque - come quello di Dio - un silenzio significativo. Naturalmente Ignazio parla anche del «Dio unico che si è rivelato attraverso suo figlio Gesù Cristo, che è la sua Parola uscita dal silenzio» (Magn 8,2) e parla della concezione di Maria, della nascita così come della morte del Signore come di «tre misteri altisonanti che furono compiuti nel silenzio di Dio» (EJ 19,1). In questo silenzio di Dio sono compiuti questi «misteri altisonanti», ma «i principi di questo mondo» non vi prestano ascolto. Concezione, nascita, morte sono dunque parole proclamate ma non ascoltate. Ma che il silenzio del Padre (sigé), dal quale nasce il logos, possa essere interpretato gnosticamente (come se dietro il logos un abisso di silenzio fosse la divinità originaria) lo vieta l'eterna generazione del Figlio dal Padre, nel senso del prologo giovanneo. Infatti di Gesù Cristo si dice che «procedette dall'unico Padre ed era presso l'Unico e a lui tornò» (Magn 7,2). Qui il silenzio del Padre, già da sempre gravido del logos, ossia significativo, è equiparato alla nascita di questa Parola e così viene fondato quanto detto prima: che il Logos si può annunziare anche attraverso il silenzio.
Il mistero del Sabato santo non costituisce qui alcuna eccezione. Non solo il fatto che Gesù diventò solidale con noi nel suo silenzio di morte è un alto grido (kraugé), ma anche il fatto che egli espressamente scende nel silenzio di quella morte che è morte lontana dalla vita di Dio, morte in cui nessuno può più lodare Dio (cfr. Sal 6,6). Dio non può annunziare più chiaramente di cosi che egli ci raggiunge perfino nel nostro essere perduti. Che nel vecchio canto ecclesiale si cantasse della «morte di Dio» significa che egli ha inserito il morire dell'uomo (lontano da Dio) nel rapporto tra il Padre e il Figlio incarnato nello Spirito Santo, che dal Figlio nella morte è restituito al Padre e che questo silenzio mortale fa parte del suo mistero rivelato, rivolto a noi.
Ci sono molti momenti nel silenzio di Gesù.
C'è un silenzio durante il quale egli ascolta l'accusa contro l’adultera e silenziosamente chinato scrive per terra, silenzio che poi- improvvisamente, rialzandosi Gesù, si condensa nella parola di giudizio: «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra contro di lei». Un silenzio che poi sprofonda di nuovo in un mutismo che non è altro se non l'eco della potente parola negli accusatori, come mostra il loro allontanarsi furtivo (Gv 8,1-11 ). E c'è poi il silenzio dell'adolescente che non rivela ai suoi genitori che rimarrà nella casa di suo Padre; silenzio che causa la loro angosciosa ricerca e che di nuovo sfocia nella sua parola autorevole che riecheggia per lunghi anni nella loro incomprensione. Questo non comprendere è il loro capire quali sconosciuti spazi si aprono con lui e quale rispetto esige la convivenza con chi è piombato dall'alto nel loro matrimonio.
Oppure poi un tacere per gli uni mentre agli altri parla: «Chi sono mia madre e i miei fratelli?» (Mc 3,33). Coloro che chiedono accesso e risposta non ottengono più di questo. O ancora in modo diverso nelle rivelazioni eccezionali senza una parola di Gesù, come nella Trasfigurazione sul Tabor, dove a coloro che fa esperimentano è negato un discorso chiarificatore, proprio come Paolo nell'estasi «ascoltai parole indicibili, esprimere le quali non è concesso a nessun uomo» (2 Cor 12,4). Parole dunque che si situano al di là del parlare umano e tuttavia sono affermazioni. A partire da questi esempi si può dire che tutte le parole di Gesù restano circondate da una zona di silenzio, che però non è limitazione della sua parola, ma al contrario rappresenta le dimensioni di questa parola non co-udibili per l'uomo. Infatti quando Dio si esprime non trattiene nulla per sé, solo non trova un ascoltatore al di fuori di sé che sia all'altezza della misura della sua parola. La miglior risposta che può ricevere «Ecco sono la serva del Signore» non sa dove possono portare le conseguenze del «mi avvenga secondo la tua. parola ». Più avanti si mostrerà che la miglior comprensione della Parola può avvenire in abbandoni e unioni al di sopra della sfera del parlare scambievole.
Ma prima bisogna parlare di qualcosa d'altro, di ciò che nella meditazione è chiamato aridità, secchezza, desolazione. Il meditante sta davanti a un testo che è solo lettere alfabetiche e che non si apre a uno spazio interiore spirituale e neanche a una presenza vivente; è uno stato nel quale «l'anima si trova completamente pigra, tiepida, triste, come separata dal suo i Creatore e Signore» (Esercizi Spirituali, n. 317). Si può parlare qui di un silenzio della Parola? In un senso sì, perché essa sembra non volersi aprire da sola. Questo stato può avere, come ci viene insegnato, differenti cause: colpa propria «perché siamo pigri, tiepidi o trascurati nei nostri esercizi spirituali», oppure stimolo da parte del Signore affinché ci affatichiamo per penetrare nelle sue profondità anche senza il suo aiuto sensibile, oppure infine la nostra presunta esperienza esistenziale che l'ingresso in questa profondità non può essere strappata con i nostri sforzi, ma è «totalmente dono e grazia di Dio nostro Signore» e noi «non possiamo gonfiare il nostro spirito in una specie di orgoglio o vanagloria» per essere saliti con forza propria su questo o quel «gradino di preghiera» (Esercizi Spirituali, n. 322). Possiamo e dobbiamo bussare ma non ascrivere al nostro bussare la magica forza che ad esso debba necessariamente corrispondere lo schiudersi della porta. L'apparente silenzio della Parola è in ciascuno dei tre aspetti un denso insegnamento: «beati coloro che non vedono e tuttavia credono» - e credere anche in una gioia non-sentita, indicibile, trasfigurata (chará aneklaléto kai dedoxasmené, 1Pt 1,8), la cui «trasfigurazione» però è presso il Signore e a cui noi ora rinunciamo.
In ciò la meditazione cristiana si distanzia notevolmente da ogni tecnica di meditazione non cristiana, che dal suo punto di vista lavora a buon diritto per un determinato traguardo esperienziale che prima o poi deve essere raggiungibile e che non fa i conti con la libertà dello spazio di grazia della Parola che si apre dal di dentro. Inoltre il cammino della insensibilità - astraendo ora dalle conseguenze delle nostre trascuratezze - è un cammino della sequela nella situazione della passione del Verbo stesso che sulla croce si è sentito «come separato dal suo Creatore e Dio», dal Padre eternamente parlante: e questo al culmine dell'autoespressione del Padre che si muove a pietà del suo mondo, che muto corre incontro al suo figlio perduto, «gli getta le braccia al collo e lo bacia» (Lc 15,20). Questa è parola oltre ogni parola, espressa nel grido di abbandono «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?».
Cosi ciò che nella meditazione è vissuto come aridità e perfino come notte oscura può essere contemporaneamente nel nascondimento e nella verità chiarissimo splendore dell'amore. Ma questo amore si deve celare nella nudità della fede, l’unica cosa che Gesù, cui ogni esteriorità ed interiorità è stata rubata, non può perdere. Così è definitivamente confermato che nella meditazione cristiana ogni silenzio è significativo. O, detto altrimenti: che là dove noi percepiamo mancanza di parole (apofasi) in senso terreno, lì si aprono le sfere metaespressive della parola e del senso.
Hans Urs Von Balthasar
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