Il 22 febbraio 2005 motiva il fondatore di Cl. E quest'anno ricorre anche il centenario dalla sua nascita. Le omelie di Delpini, De Donatis, Zuppi e Castellucci
Il 22 febbraio 2005 moriva don Luigi Giussani. In occasione del centenario della nascita (1922) e del 40° anniversario del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione (1982) vengono celebrate centinaia di Messe, presiedute da cardinali e vescovi, in Italia e in molte città del mondo, dove il suo carisma ha portato frutto. Questa l’intenzione proposta dal movimento per l’occasione: «Chiediamo, per l’intercessione della Madonna “di speranza fontana vivace”, di vivere e di testimoniare ogni giorno in prima persona, nella fedeltà totale alla Chiesa, la responsabilità del carisma donato dallo Spirito di Cristo a don Giussani a beneficio di tutto il santo popolo di Dio e dei fratelli uomini».
Qual è l’eredità che ha lasciato il fondatore di Cl? Nel 2015, parlando ai ciellini radunati in piazza San Pietro, papa Francesco aveva sottolineato quanto fosse importante per don Giussani la dimensione dell’incontro: «Incontro non con un’idea, ma con una Persona, con Gesù Cristo. […] Tutto, nella nostra vita, oggi come al tempo di Gesù, incomincia con un incontro. Un incontro con quest’Uomo, il falegname di Nazaret, un uomo come tutti e allo stesso tempo diverso. […] Tenete vivo il fuoco della memoria di quel primo incontro e siate liberi! Così, centrati in Cristo e nel Vangelo, voi potete essere braccia, mani, piedi, mente e cuore di una Chiesa “in uscita”».
Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, sottolinea ad Avvenire che «la preoccupazione del Papa che la Chiesa trova se stessa “uscendo” è esattamente quella che animava Giussani: incontrare le tante domande di vero, bello e buono presenti nel cuore degli uomini ed entrare in dialogo con esse. Lui lo ha saputo fare testimoniando un Cristo vicino, coinvolgente, pieno di passione per l’uomo, per la terra e per il cielo. Una passione che si esprime anche nella condivisione delle necessità dei poveri, come è accaduto fin dagli anni Sessanta per tanti giovani che hanno fatto l’esperienza della caritativa passando la domenica con i bambini nelle cascine della Bassa Milanese, dove hanno sperimentato che la Chiesa “esce” da se stessa praticando una carità che rende concreto l’incontro con Cristo. Oggi come ieri questo approccio dimostra la sua valenza educativa, ed è rilevante che accada in una dimensione comunitaria, indispensabile per una Chiesa che vive la tentazione dell’individualismo e rischia di ridursi a cappellano del privato, come se la fede fosse una sorta di fitness spirituale».
Nell’omelia pronunciata domenica durante la Messa in memoria di Giussani, il cardinale Angelo De Donatis, vicario generale per la diocesi di Roma, ne ha messo in evidenza «il realismo della fede. Per lui la fede non è certo un sentimento indistinto o un’ispirazione interiore che spinge all’impegno etico e sociale. Ma non è neppure semplicemente l’adesione a una dottrina che rimane estranea alla vita. Ha una percezione acuta della realtà di Cristo, della sua attualità presente, della sua unicità per cui dobbiamo riconoscere che Gesù ha dei tratti inconfondibili anche con quelli che Lui stesso ha creati come segno di sé. Niente può sostituire Cristo. Attraverso le vicende della storia, Cristo rimane il soggetto di un’iniziativa che è solo sua. E quando Cristo si fa conoscere per quello che è, niente appare più decisivo del rapporto con Lui». Da questo rapporto personale scaturisce l’impeto missionario, un altro dato che caratterizza la personalità di Giussani: «Un uomo innamorato di Cristo desidera farlo conoscere agli altri. Chi conosce Cristo non può non guardare con struggimento alla vita degli uomini che cercano in mille modi di essere felici e non ci riescono». C’è un dato che certifica l’autenticità di un percorso di fede: «La sequela di Cristo per don Giussani ha un’ultima e definitiva garanzia nell’obbedienza all’autorità della Chiesa e in particolare all’autorità del Papa. Nell’obbedienza che ha predicato e vissuto non c’è nulla di servile, di formale, di opportunistico. Obbedisce alla Chiesa perché vuole obbedire a Cristo e riconosce che il rapporto con Lui passa oggettivamente attraverso il rapporto con coloro che hanno il compito di guidare la sua Chiesa».
Secondo l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, un giudizio sulla figura di Giussani non può prescindere «dalle difficoltà che ha dovuto affrontare in un momento storico particolarmente difficile, misurandosi con un ambiente ostile e con pregiudizi radicati. La sua eredità, che continua a portare frutto anche oggi, è quella di un grande educatore, animatore di persone che sanno interpretare questo tempo proponendosi come testimoni della speranza cristiana».
Una speranza che ha a che fare con la materialità dell’esistenza, come sottolinea Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi e vicepresidente della Cei (Nord Italia): «Per don Giussani l’incarnazione, l’umano visitato dal Verbo, è il perno dell’evento cristiano. Aveva intuito la sfida odierna autentica alla fede: abitare il quotidiano con l’energia del Cristo risorto, farne la sua presenza viva. Papa Francesco considera lo gnosticismo e il pelagianesimo le due grandi tentazioni del cristianesimo contemporaneo; lo gnosticismo prescinde dalla carne e il pelagianesimo prescinde dalla grazia. Il primo cade nello spiritualismo e il secondo nel moralismo. Giussani aveva messo in guardia proprio da questi due rischi, che svuotano l’esperienza cristiana dall’interno. Il segreto è rimettere al centro la carne di Cristo, il corpo della Chiesa, la relazione di prossimità con gli ultimi».
Di Giorgio Paolucci
Tratto da Avvenire.it
Versione app: 3.21.2 (4608c5c)