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Sulla donna incinta in stato di coma: la strana congiunzione fra eutanasia e abo...

...questo è infatti il secondo punto: la madre non è sola. C'è un bambino dentro di lei che continua a crescere, e le cui prospettive di vita aumentano con il passare dei giorni e delle settimane. Perché si ode allora invocare il “diritto” di aborto?


Sulla donna incinta in stato di coma: la strana congiunzione fra eutanasia e aborto

da Teologo Borèl

del 01 gennaio 2002

Uno straordinario intreccio di questioni etiche, mediche e giuridiche si sta verificando nel caso di Genova, all’ospedale San Martino, dove dal 2 gennaio 2005 è ricoverata una donna di 36 anni, colpita da grave emorragia subcorticale, incinta. È una storia dolorosa, di una mamma che muore lasciando il marito, un figlio di pochi anni, e forse un fragilissimo neonato, e dispiace doverne parlare appunto come di “un caso”, proposto per l’esemplarità delle situazioni che rappresenta, ma in fondo astraendo dalla realtà di concretissima sofferenza che stringe le persone interessate. E, come tutti i casi, si presta a semplificazioni, imprecisioni e strumentalizzazioni.

E tuttavia è doveroso parlarne, perché le problematiche che ha sollevato non riguardano soltanto la sfera privata dei soggetti coinvolti, ma le stesse idee di vita e di morte nelle loro implicazioni etiche e sociali. Urgono perciò dei chiarimenti.

Intanto, due sono le leggi chiamate in causa: la legge 578/1993 sull’accertamento di morte e la legge 194/1978 sull’interruzione di gravidanza, e due i temi bio-etici correlati: l’eutanasia e l’aborto.

Il primo punto riguarda la madre. È lecito “staccare la spina”? In base alla legislazione italiana, uno dei criteri di determinazione dell’avvenuto decesso è la morte cerebrale totale, intesa come «la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo», composto di corteccia, tronco encefalico e cervelletto.

Talora, però, il linguaggio inganna. Così, se da una parte capita di udire il termine francese coma depassé per indicare la morte cerebrale totale, dall’altra c’è chi utilizza l’espressione morte cerebrale intendendo unicamente la morte corticale, cioè la cessazione tendenzialmente irreversibile delle sole funzioni della corteccia cerebrale.

Tale definizione si sposa con una visione della dignità umana ridotta alle sole “funzioni intellettive superiori”, di cui è appunto responsabile in senso organico la corteccia: la morte umana, in questa prospettiva, coinciderebbe con la “morte” delle funzioni “superiori”, perché, in loro assenza, il vivente non sarebbe altro che un vegetale, o comunque un essere sub-umano.

Sarebbe dunque lecito, secondo questa teoria, sospendere in tale frangente i mezzi di sostentamento vitale e lasciare che si arrestino anche le funzioni biologiche residue, oppure procedere al prelievo di organi a scopo di trapianto. Per analoghe ragioni, i sostenitori della morte corticale non considerano nemmeno eutanasia l’interruzione della terapia, in questi casi. Riconoscono insomma che in questi casi c’è vita, ma una sorta di “vita umana declassata”, che, in quanto tale non è più “degna di essere vissuta”.

Nella vicenda genovese non è chiaro quale sia lo stato della donna. La maggior parte delle fonti parlano di morte cerebrale, ma qualcuno assicura che non si tratta ancora di morte cerebrale totale, in quanto l’elettroencefalogramma (ECG) non sarebbe piatto (cfr. L. Offeddu, “La mamma in coma, non c’è morte cerebrale”, “Corriere della Sera”, 28 gennaio 2005, p. 17). L’EEG, a dire il vero, non è comunque sufficiente a decretare la morte cerebrale totale, in quanto tale strumento diagnostico permette di monitorare essenzialmente l’attività corticale. Perché sia dichiarata la morte in base a criteri cerebrali, invece, occorre che si verifichino contemporaneamente tre condizioni per un congruo periodo di osservazione da parte di una apposita commissione: stato di coma accompagnato da assenza completa di riflessi del tronco cerebrale, assenza di respirazione spontanea, silenzio elettrico cerebrale (ovvero il cosiddetto EEG “piatto

Nel caso non sia stata accertata la morte della donna, dunque, la sospensione del sostegno vitale è eutanasia, peraltro effettuata su paziente non consapevole, e come tale va rifiutata indipendentemente dalla condizione di gravidanza. Semmai, il fatto che ci sia una vita, quella del figlio in utero, strettamente legata alla funzionalità cardio-circolatoria materna, rende giustificato il mantenimento del sostegno vitale sostitutivo anche dopo la morte, esattamente come avverrebbe nel caso di consenso al prelievo d’organi, o l’eventuale protrarsi di terapie che in diverse circostanze potrebbero essere definite come accanimento terapeutico. In questo frangente, infatti, un trattamento atto a preservare la vita del bambino non si può dire “inutile” o “sproporzionato”, anche se tale risultasse per la sola madre.

Questo è infatti il secondo punto: la madre non è sola. C’è un bambino dentro di lei che continua a crescere, e le cui prospettive di vita aumentano con il passare dei giorni e delle settimane. Perché si ode allora invocare il “diritto” di aborto? Non si vede in effetti in che modo questo caso possa rientrare nella pur molto (vergognosamente, indiscriminatamente) permissiva legge 194 sull’interruzione di gravidanza. Nel secondo trimestre, la legge prevede la possibilità dell’aborto terapeutico in casi particolari di danno psico-fisico della madre causato dal feto, la cui eliminazione si ritiene (erroneamente) risolutiva, “terapeutica”, per la madre.

In questo caso, non si vede come tale condizione possa essere soddisfatta. Se la madre è morta, è ovvio che non ha più alcun interesse da tutelare, né beneficio da ottenere, e tutti gli sforzi terapeutici debbono essere concentrati sul bambino, che può essere salvato. Se la madre è ancora viva, tale va mantenuta, consentendo con ciò anche lo sviluppo del figlio. Non si profila alcun “conflitto di interessi” fra madre e bambino, dal momento che lo stato presente della donna non è rimediabile o migliorabile attraverso un aborto (che dunque non può in alcun modo essere “terapeutico”), né la presenza del piccolo è attualmente causa di danno per la madre (cfr. Appelli per salvare la vita a un bambino la cui mamma è in coma profondo, ZENIT, 28 gennaio 2005).

Si tratterebbe forse di un “aborto punitivo”, per il fatto che l’ipertensione della donna ha avuto una tragica evoluzione durante la gravidanza, e che quindi il bambino è stato causa di danno materno (o di morte)? È ragionevole far scontare ad un bimbo ignaro di tutto la colpa di mali che rientrano nel corso, talora infausto, degli eventi umani? E poi, sono molte le donne ipertese che portano a termine con successo le loro gravidanze. Perché si ha il coraggio di sostenere che la donna “avrebbe dovuto abortire prima” (cfr. N. Negrello, Incinta e in coma. Si “sperimenta” sul feto? , Italiasalute.it, 28 gennaio 2005)?

In sintesi: mantenere in vita il bambino e permettergli di crescere il più possibile non aggrava ulteriormente, né tocca in alcun modo, le condizioni materne. Piuttosto, può aiutare la famiglia a superare il trauma dell’accaduto e dare speranza per il futuro, realizzando ciò che la donna morta, morente o comatosa certamente voleva, cioè quel secondo figlio.

Bisogna anche riconoscere che la stessa legge 40 si riferisce all’aborto come all’eliminazione del feto prima della viabilità, cioè della capacità di vita autonoma fuori dall’utero, per quanto in condizioni di grave menomazione o rischio. Tale soglia va continuamente abbassandosi, e se in passato poteva ritenersi viabile un feto dalle ventisei settimane in poi, il limite si è successivamente abbassato a ventiquattro, a ventidue, e finanche a ventuno settimane (C. V. Bellieni, L’alba dell’«io». Dolore desideri, sogno, memoria del feto, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2004). Per questo la legge stabilisce che se un aborto determina la nascita di un feto vivo, il feto va rianimato, come un qualsiasi paziente in pericolo.

La volontaria soppressione di un feto che si sa viabile, che oltretutto si può aiutare sia prima che dopo la nascita, dunque, rivela la tragica carica infanticida della mentalità abortiva. Rivela inoltre la crescente mentalità eugenetica, per la quale fa così problema che un bimbo, fiduciosamente raccolto nel grembo materno, possa nascere prematuro e forse disabile, che si preferisce eliminarlo. Curarlo appare uno sforzo eccessivo, “intollerabile”.

Infine, stupisce la decisione del Comitato etico dell’ospedale San Martino, che affida la decisione al marito della donna, trascurando le possibili difficoltà di comprensione e di valutazione dei dati da parte di un uomo inevitabilmente provato dal dolore, e il dovere fondamentale e intrinseco della medicina di curare i malati, piccoli e grandi.

La giusta soluzione di questo “caso”, in definitiva, è di una tale evidenza che si può chiamarlo eticamente controverso solo in senso minimale, cioè come denuncia di coloro che propugnano il rifiuto di quel moto primo della coscienza umana per cui l’omicidio suscita orrore.

In questi giorni si sente spesso ripetere, in difesa del bambino: “Dategli una possibilità di nascere, di vivere”; in realtà, la situazione è descritta in modo più essenziale ed esplicito in questi termini: “Dategli la possibilità di non morire”. 

Spesso, infatti, nei discorsi che riguardano la vita embrio-fetale, e in specifico la fecondazione artificiale, si mette l’accento sul “venire all’esistenza”. In realtà, si parla generalmente di persone che esistono già, che vivono, che continuerebbero a vivere se qualcuno non le facesse (volontariamente) morire. La vicenda di questo bambino in bilico nascosto in una donna che non lo può difendere lo rivela in tutta la sua crudezza.

Dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum

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