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Quel «ricordati di me» di tutti noi ladroni perdonati

lunedì santo, era san Disma. Il ladrone. Quello crocefisso con Gesù. Un poco di buono. Uno che aveva meritato il supplizio da schiavo, da rifiuto umano. Uno che si è trovato a gridare insieme a Lui per i chiodi nella mano.


Quel «ricordati di me» di tutti noi ladroni perdonati

 

          La Settimana Santa, la memoria della resurrezione, i giorni dedicati al mistero dei misteri iniziano con il ricordo di un delinquente. L'altroieri, lunedì santo, era san Disma. Il ladrone. Quello crocefisso con Gesù. Un poco di buono. Uno che aveva meritato il supplizio da schiavo, da rifiuto umano. Uno che si è trovato a gridare insieme a Lui per i chiodi nella mano.           E per il respiro che mancava, il respiro che impazziva. E che era lì – come mormora lui stesso – giustamente. Secondo giustizia. Aveva rubato, sfasciato vite, beni, aveva messo le mani dove non doveva. Come tutti noi, io penso. Che siamo un po’ tutti ladri. Di vita, di persone, di cose, di aria, di pensieri. Disma, il primo a entrare in paradiso con Gesù, il primo invitato, volle rubare anche il paradiso. Volle compiere il colpo migliore che gli poteva riuscire. Si dice che l’occasione fa l’uomo ladro.           E lui ebbe, mentre nessuno se l’aspettava, proprio la grande occasione. Migliore di tutte le altre in cui era diventato ladro. Così è diventato il più grande ladro della storia. Sul Golgota il suo cuore di cacciatore d’occasioni non lo tradì. E riconobbe che Chi gridava e ansimava vicino non era uno come gli altri. Non era come quell’altro che gridava e moriva bestemmiando. Il cuore di Disma, patrono di noi tutti ladri di vita, fu sveglio e attento alle occasioni fino all’ultimo.           E fu schiantato di umiltà, di realismo, fu pieno del rimpianto di dover morire e allora fece l’ultimo furto, trasformando la rapina in invocazione, la delinquenza in mendicanza: ricordati di me... Chiese al Morente accanto a lui quel che tutti chiediamo quando diventiamo da ladri mendicanti: ricordati di me. Lo diciamo ai nostri amori, ai nostri cari, lo diciamo al vento, alla notte stellata, a Dio. Ricordati di me. Furto e supplica coincisero sulla bocca insanguinata di Disma. Perché aveva riconosciuto, pur in fondo all’orrore, che lì c’era una Presenza nuova, una santa presenza. Più forte di ogni suo male.           La Chiesa richiama il senso del peccato, non il senso di colpa. L’esempio del delinquente santo che ci accoglie alla porta della Pasqua è richiamo alla differenza che corre tra il senso del peccato e il senso di colpa, se così si può dire. La nostra è un’epoca piena di senso di colpa. Gli errori stanno come macigni a ingombrare a lungo i rapporti, le coscienze. Una certa diffusa ansia e un certo vasto cinismo hanno radice proprio nel vedere la vita propria o altrui segnata irrimediabilmente da colpe e errori. Anche il ricorso a supporti di tipo psicoterapeutico è motivato spesso dalla necessità di rimuovere macigni di questo genere. Il peccato invece non è "irrimediabile".           Lo insegna Disma, ladro in croce. La sua invocazione ha per così dire traversato in un baleno ogni senso di colpa, lo ha distrutto diventando senso del peccato. Che è composto dal riconoscimento che c’è una Presenza la quale anche all’ultimo istante, anche nelle condizioni più dure e oscene – sul patibolo! –, può aprire la vita ai suoi giardini sperati. Al paradiso. A Lei ci si rivolge con una supplica senza pudore. Il senso di colpa invece blocca davanti a uno specchio.           E fa crescere ansia, rabbia, frustrazione. Disma il ladro è una spina nel fianco a ogni moralismo moderno, al tentativo di sostituire il duro fertile senso del peccato con l’angoscia arida del senso di colpa. La confusione tra i due è stata promossa dalla mentalità borghese, dalla sua presunzione di fare a meno di dover supplicare, coi risultati di ansia e di rigidità psichica che vediamo. Un uomo che non invoca perdono viene divorato dai sensi di colpa, oppure li deve sopire, a qualunque costo. Un grande peccatore che invoca vede invece schiudersi il cielo anche nella condizione più tenebrosa.

 

 

Davide Rondoni

 

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