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Povertà

Il discorso cristiano sulla povertà è molto delicato. Si tratta di un argomento facilmente manipolabile: estrapolando alcuni testi evangelici si può fondare su di essi un rigorismo tanto radicale quanto irrealizzabile e perciò irreale.


Povertà

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Il discorso cristiano sulla povertà è molto delicato. Si tratta di un argomento facilmente manipolabile: estrapolando alcuni testi evangelici si può fondare su di essi un rigorismo tanto radicale quanto irrealizzabile e perciò irreale. D’altro canto, nell’attuale clima di esaltazione del «mercato» si arriva perfino a cercare (e a pretendere di trovare) il fondamento evangelico al sistema capitalistico. Denunciando in partenza il carattere fuorviante di qualunque forma di demonizzazione del «mercato», dell’«impresa» ecc., che a volte è dato di riscontrare in ambienti cattolici – e riconosciuto che il giudizio dato in ambito cattolico a questioni e realtà economiche è spesso grossolano, assolutamente inadeguato alla realtà, mosso da stereotipi arcaici che non rendono minimamente ragione della realtà economica odierna, e dunque risulta ideologico o semplicemente inutile – io vorrei rileggere la povertà a partire dal messaggio evangelico e neotestamentario per trarne indicazioni per il nostro oggi.

Dall’insieme del Vangelo emerge che il discorso sulla povertà trova il suo senso solo se non viene isolato ma contestualizzato all’interno del centro che ha mosso la vita e la predicazione di Gesù: l’annuncio dell’irruzione del Regno di Dio; la rivelazione che in lui Dio visita il suo popolo. Questo primato del Regno, che diviene primato di Cristo e della sua sequela, relativizza tutte le realtà umane e ordina il rapporto con esse. È così che l’irruzione del Regno nel Messia inviato ai poveri significa la beatitudine dei poveri (Luca 6,20-26), proclamati beati non perché poveri, ma perché nel Messia è loro data la caparra della fine della loro povertà: il Regno che Dio instaurerà pienamente appartiene loro. Al tempo stesso, accanto a questa povertà negativa e multiforme, che abbraccia i mali, le malattie, i peccati, la morte, cioè tutte le realtà che feriscono la pienezza di vita dell’uomo, e da cui l’uomo dev’essere liberato, il Cristo pone l’istanza di una povertà interiore, la povertà in spirito (Matteo 5,3), che riguarda l’essere non l’avere. È l’attitudine di fede e di umiltà di chi non confida in sé, nei propri beni o nella propria forza, ma nel Signore.

Il primato del Regno relativizza drasticamente le ricchezze: Gesù mette in guardia da esse, perché possono prendere possesso del cuore ed ergersi a idolo («Mammona»), arrivando così a sostituirsi a Dio e a disumanizzare l’uomo. Del resto, già Aristotele aveva proclamato «contro natura» l’atteggiamento di chi cerca la felicità accumulando ricchezze: queste possono essere solo un mezzo, non un fine. Vi è infatti una dimensione antropologica della povertà, assolutamente da assumersi per obbedire alla propria chiamata creazionale, per divenire ciò che si è. La feroce critica alla ricchezza e l’invettiva contro i ricchi presente nella lettera di Giacomo non esauriscono certo il messaggio neotestamentario su povertà e ricchezza, ma significano un atteggiamento profetico e critico che la chiesa deve mantenére desto nella storia, a costo di scontrarsi con i poteri mondani costituiti. E, in effetti, Gesù pone l’istanza evangelica della povertà anche nei termini di libertà dal potere: «Voi però non così» (Luca 22,26) è il categorico comando di Gesù costitutivo della chiesa come comunità eucaristica strutturata in modo «altro» rispetto a quello dei poteri mondani. La povertà qui appare come opposta al potere. La presenza evangelica della comunità cristiana porta con sé una valenza di contro-cultura, di critica del potere dominante: ma questa valenza è attiva solo quando all’interno della chiesa l’autorità è declinata non come potere ma come servizio. Ridurre la povertà a virtù privata significa disinnescarne un’evangelica potenzialità critica. Non a caso nel periodo tardomedievale, in concomitanza con una mancanza di istanza critica nei confronti dell’evoluzione della società in campo economico, la chiesa arrivò a espungere la povertà dal proprio ideale canonico di santità. Solo con il Vaticano II si tornerà a parlare di chiesa povera e di poveri, e non solo per i poveri o con i poveri. In questa prospettiva si riprende il fondamento cristologico della povertà: «Cristo, da ricco che era, si fece povero per voi, per arricchirvi mediante la sua povertà» (2 Corinti 8,9). Fondamento che fa della povertà non un consiglio riservato ad alcuni, ma un’esigenza evangelica ineludibile per tutti i cristiani. Essa però non è una legge che norma le forme storiche della povertà. Lo stesso Nuovo Testamento presenta numerose e differenziate forme: esso parla di vendita dei beni, di rinuncia, di abbandono, di condivisione dei beni, di collette a favore di chiese povere ecc. il fondamento cristologico diviene fondamento trinitario se pensiamo al Cristo che è povero perché, secondo il quarto Vangelo, tutto ciò che egli ha, dice e fa lo riceve dal Padre. Questa relazione intratrinitaria di ascolto e accoglienza reciproca del Padre e del Figlio diviene comunicazione all’uomo attraverso il dono dello Spirito. Ed è proprio lo Spirito che può suscitare la creatività dei cristiani nella storia per guidarli all’obbedienza al Vangelo eterno nel rinnovato contesto storico. il fondamento cristologico e trinitario della povertà deve interrogare la chiesa almeno su due punti, che rappresentano una sfida che i prossimi anni riservano al cristianesimo: vivere la missione come missione povera, traducendo nell’oggi le richieste esigentissime di Gesù circa la povertà dell’inviato (cfr. Luca 9,1-6; 10,1-16). Solo una missione povera può rivolgersi a destinatari poveri e può non smentire praticamente il Vangelo, parola della croce, che essa annuncia. il farsi povero di Cristo, infatti, trova nella donazione di sé sulla croce l’apice’della sua manifestazione. Inoltre occorre pensare la povertà come dimensione comunitaria, ecclesiale, non solo come virtù individuale. Ma ciò richiede la ripresa dell’orizzonte escatologico come plasmante le strutture ecclesiali e il modo di porsi della chiesa nella storia e anche l’ascolto del grido dei milioni di poveri che dalla terra sale a Dio e chiede giustizia.

Enzo Bianchi

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