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Papa Francesco a Roma Tre

Per la prima volta Papa Francesco entra in un ateneo pubblico romano e subito chiarisce la sua idea di università: un luogo di “dialogo nelle differenze”...


Papa Francesco a Roma Tre

del 19 febbraio 2017

Per la prima volta Papa Francesco entra in un ateneo pubblico romano e subito chiarisce la sua idea di università: un luogo di “dialogo nelle differenze”...

 

Le migrazioni “non sono un pericolo”, ma “una sfida per crescere”: la via è quella dell’integrazione, di cui discutere anche nelle università, luogo di “dialogo nelle differenze”. Così Papa Francesco, in visita stamani all’Università degli Studi Roma Tre. Incontrando studenti, professori e tutto il personale dell’ateneo, il Pontefice, parlando a braccio, ha invitato alla “concretezza”, di fronte alla “liquidità” di società ed economia.

 

Per la prima volta Papa Francesco entra in un ateneo pubblico romano e subito chiarisce la sua idea di università: un luogo di “dialogo nelle differenze”. L’Università degli Studi Roma Tre, la più giovane della capitale italiana, con i suoi 25 anni d’età, lo accoglie con i propri giovani, una folta rappresentanza dei 40 mila iscritti, che lo attende nel piazzale antistante la sede di Via Ostiense: in lontananza si intravedono quelli che una volta erano gli edifici industriali della zona, nell’area proprio dove nel 1992 venne fondato l’ateneo. Appena arrivato, i saluti del rettore Mario Panizza e delle istituzioni universitarie, quindi Francesco ascolta le domande rivoltegli da quattro studenti. Consegnando il discorso ufficiale, risponde a braccio, su temi che gli sono cari. È affiancato da una traduttrice nel linguaggio dei segni, per i non udenti. Su invito di Giulia, riflette sulla violenza, che nasce dal poco, per strada, in famiglia, nel nostro linguaggio: oggi – nota – c’è “violenza nell’esprimersi, nel parlare”, ci si dimentica perfino di “dare il buongiorno”:

“La violenza è un processo che ci fa ogni volta più anonimi: ti toglie il nome. Anonimi gli uni verso gli altri. Ti toglie il nome e i nostri rapporti sono un po’ senza nome: sì, è una persona quella che ho davanti, con un nome, ma io ti saluto come se tu fossi una cosa. Ma questo che noi vediamo qui, cresce, cresce, cresce e diviene la violenza mondiale. Nessuno, oggi, può negare che stiamo in guerra, e questa è una terza guerra mondiale a pezzetti, ma c’è. Bisogna abbassare un po’ il tono e bisogna parlare meno e ascoltare di più”.

In un mondo in cui, nota Francesco, anche “la politica si è abbassata tanto”, perdendo il “senso della costruzione sociale, della convivenza sociale”, la prima medicina contro ogni violenza diventa quella del cuore “che sa ricevere”, in un dialogo che “avvicina”, nell’ascolto dell’altro:

“La pazienza del dialogo. E dove non c’è dialogo, c’è violenza. Ho parlato di guerra: è vero, stiamo in guerra. E’ vero. Ma le guerre non incominciano là: incominciano nel tuo cuore, nel nostro cuore. Quando io non sono capace di aprirmi agli altri, di rispettare gli altri, di parlare con gli altri, di dialogare con gli altri: lì incomincia la guerra”.

L’università, sottolinea, è invece il luogo "dove si può dialogare, dove c’è posto per tutti”, ognuno con il proprio modo di pensare. Altri luoghi, osserva, dove ciò non avviene non possono essere considerati alla stessa stregua

“Le università di élite, che sono generalmente cosiddette università ideologiche, dove tu vai, ti insegnano questa linea, soltanto, di pensiero, questa linea ideologica e ti preparano a essere un agente di questa ideologia. Quella non è università: quella non è università. Dove non c’è dialogo, dove non c’è confronto, dove non c’è ascolto, dove non c’è rispetto per come la pensa l’altro, dove non c’è amicizia, dove non c’è la gioia del gioco, lo sport, tutto quello, non c’è università. Tutto insieme”.

L’invito, rispondendo a Riccardo e a Niccolò, è dunque a “cercare sempre l’unità”, concetto “totalmente” diverso dall’uniformità. Per essere tale, afferma, “si fa con la diversità”, perché il pericolo di oggi - a livello mondiale - è concepire “una globalizzazione nella uniformità”. La via è quella di un modello - già citato dal Papa - preso a prestito dalla geometria, il poliedro:

“C’è una globalizzazione poliedrica, c’è un’unità, ma ogni persona, ogni razza, ogni Paese, ogni cultura sempre conserva la sua identità propria. E questa è l’unità nella diversità che la globalizzazione deve cercare”.

Anche nella comunicazione, rileva il Pontefice, c’è al momento una certa “celerità”; Francesco evoca la “rapidazione”, termine coniato dagli olandesi – spiega, riallacciandosi ad un recente dialogo avuto coi gesuiti - per indicare la progressione geometrica in termini di velocità e che oggi può applicarsi al mondo della comunicazione:

“Tante volte una comunicazione così rapida, così leggera, può diventare liquida, senza consistenza e questo è uno dei pericoli di questa società - questa non è una parola mia, la ‘società liquida’, l’ha detta Bauman da tempo - , la liquidità senza consistenza. E noi dobbiamo prendere la sfida di trasformare questa liquidità in concretezza”.

Un “dramma”, quello della “liquidità”, che caratterizza pure l’economia, che non produce più “lavoro concreto” per i nostri giovani. Succede in Europa, evidenzia il Papa, dove aumenta la percentuale di disoccupazione per i ragazzi “dai 25 anni in giù”:

“Questa liquidità dell’economia toglie la concretezza del lavoro e toglie la cultura del lavoro perché non si può lavorare, i giovani non sanno cosa fare”.

Vengono sfruttati, cadono nelle dipendenze, vengono portati al suicidio o – osserva ancora Francesco – ad arruolarsi “in un esercito terrorista”. Serve, ripete, concretezza anche nell’economia, nel mondo come in Europa. Quel continente, spiega, che è stato caratterizzato nella sua storia “da invasioni, migrazioni”: è stato fatto “artigianalmente”. Ed oggi invece teme di perdere la propria “identità” se - aggiunge - “viene gente di altra cultura”. Le migrazioni, ribadisce Francesco, “non sono un pericolo”, ma “una sfida per crescere”. Parla del viaggio a Lesbo – “ho sofferto tanto”, ricorda – e racconta di come Nour, la ragazza siriana che gli ha rivolto una delle domande, sia arrivata in Italia con la sua famiglia ed un altro piccolo gruppo di rifugiati a bordo del volo papale di rientro dall’isola greca. Quindi il Pontefice rivolge il proprio sguardo a chi fugge dall’Africa e dal Medio Oriente:

“Perché c’è la guerra e fuggono dalla guerra, o c’è la fame e fuggono dalla fame. Ma quale sarebbe la soluzione ideale? Che non ci sia la guerra e che non ci sia la fame, cioè fare la pace o fare investimenti in quei posti perché abbiano risorse per lavorare e guadagnarsi la vita”.

È un invito dunque, quello del Papa, a “non sfruttare”: lo rivolge ai “potenti” della Terra, come ai criminali che gestiscono i traffici dei “barconi” carichi di migranti, che fanno sì che il Mediterraneo si sia trasformato in un “cimitero”:

“Non dimentichiamo questo: il nostro mare, il ‘mare nostrum’, oggi è un cimitero. Pensiamolo quando stiamo da soli, come se fosse una preghiera”.

Il pensiero va quindi al viaggio a Lampedusa – “ho sentito che dovevo andare”, spiega – quando il fenomeno migratorio stava cominciando: oggi, constata, “è di tutti i giorni”. Quindi, come accogliere chi arriva?

“Prima, come fratelli e sorelle umani: sono uomini e donne come noi. Secondo, ogni Paese deve vedere quale numero è capace di accogliere. E’ vero: non si può accogliere se non c’è possibilità. Ma tutti possono fare. Poi, non solo accogliere: integrare. Integrare, cioè ricevere questa gente e cercare di integrarli. Che imparino la lingua, cercare un lavoro, un’abitazione: integrare. Che ci siano organizzazioni per integrare”.

È questo il significato di “porte aperte”, prosegue Francesco:

“Loro portano una cultura, una cultura che è ricchezza, per noi. Ma anche loro devono ricevere la nostra cultura e fare uno scambio di culture. Rispetto. E questo toglie la paura. Ma, c’è la paura, sì; ma la paura non è soltanto dai migranti: i delinquenti che vediamo sui giornali, le notizie, sono nativi di qui, o immigrati, di tutto: c’è di tutto! Ma integrare è importante”.

Il rischio è che succeda come in Belgio, dove - ricorda - gli autori della strage a Zaventem erano belgi, “figli di migranti, ma ghettizzati, non integrati”. Cita quindi l’esempio di accoglienza della Svezia nei confronti dei connazionali argentini. E conclude, prima dello scambio dei doni, riassumendo la propria “risposta alla paura”:

“Quando c’è questo: accoglienza, accompagnare e integrare, non c’è pericolo con le migrazioni. Si riceve una cultura e si offre un’altra cultura”.

 

Radio Vaticana

http://www.news.va

 

 

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