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Operai silenziosi

Spesse volte abbiamo paura del silenzio: fisicamente parlando, l’idea di dover riempire a tutti i costi, con del segmento fonico, con delle immagini particolarmente evocative da postare, con la scrittura stessa, le molteplici situazioni che dipingono il mondo, sembra ormai un fattore imprescindibile della cultura moderna, che ragiona per slogan e istantaneità. Ci chiederemo fino a che punto possiamo spingerci nel giudizio senza giocare con la pelle degli altri, ripercorrendo anche alcune tappe cinematografiche e musicali in cui il silenzio ha costituito di per se stesso l’intento comunicativo e come possiamo applicare questo principio alla realtà drammatica che vede come protagonista la Venezia sott’acqua degli ultimi giorni.


OPERAI SILENZIOSI

di Giandomenico Odorisio

 

Spesse volte abbiamo paura del silenzio: fisicamente parlando, l’idea di dover riempire a tutti i costi, con del segmento fonico, con delle immagini particolarmente evocative da postare, con la scrittura stessa, le molteplici situazioni che dipingono il mondo, sembra ormai un fattore imprescindibile della cultura moderna, che ragiona per slogan e istantaneità. Ci chiederemo fino a che punto possiamo spingerci nel giudizio senza giocare con la pelle degli altri, ripercorrendo anche alcune tappe cinematografiche e musicali in cui il silenzio ha costituito di per se stesso l’intento comunicativo e come possiamo applicare questo principio alla realtà drammatica che vede come protagonista la Venezia sott’acqua degli ultimi giorni.

 

 

Il Grande Silenzio è un film del 2005 diretto da Philip Gröning. A distanza di 16 anni dalla richiesta iniziale, il regista si reca nel monastero della Grande Chartreuse, in mezzo alle Alpi francesi. Lì, per circa sei mesi, Gröning vive dei rituali quotidiani, delle preghiere e dei compiti eseguiti dai monaci Certosini, ordine tra i più ascetici, la cui regola prevede un distacco pressoché assoluto dal mondo esterno. Le riprese sono realizzate senza ricorrere a una troupe in senso stretto, bensì con una semplice videocamera, a riprova del profondo rispetto che lo stesso regista nutre nei confronti dell’ambiente che lo ha accolto e che gli ha permesso di realizzare, dopo ben 16 anni, uno dei suoi più grandi sogni, un film documentario su questa peculiare realtà monastica.

Parimenti Simon & Garfunkel, nella celeberrima, e spesso abusata, The Sound of Silence, rievocano la sacralità del silenzio cui seguono molteplici visioni. Silenzio, dunque, come momento evocativo di immagini e turbamento emotivo in cui l’uomo, ancora una volta, riflette sul dramma tutto personale dell’incomunicabilità con i propri simili.

 

In una realtà come quella odierna, ingolfata, a mio avviso non ancora irrimediabilmente, di slogan e pubblicità (quest’ultima non è altro che un vero e proprio generatore automatico di bisogni), il film di Gröning e il tentativo di intima introspezione operato da Simon & Garfunkel, sembrano piccole stelle luccicanti in un cielo non troppo sereno.

Alcune reazioni particolari, all’interno del marasma generale che ha colpito in questi giorni Venezia nella sua interezza, sembrano confermare questa triste tesi: ho visto politici fare propaganda ragionando per slogan, figli illegittimi dell’ormai decontestualizzato slogan politico per eccellenza, il “Pensiero e Azione” di Mazzini; ho visto meme irriverenti, ambientalisti atteggiarsi ed ergersi con supponenza, della serie “Visto? Che vi avevo detto?”, immemori della catastrofe occorsa alla città nel lontano ’66 e concentrati a tirar acqua al proprio mulino sfruttando il caso, come se non ce ne fosse già abbastanza, di acqua; ho visto giornalisti fare audience scavando a fondo dei piccoli drammi individuali che ogni veneziano sta vivendo; ho visto stories su Instagram di acculturati d’arte veneziana divenuti tali nel momento in cui quell’arte è stata corrotta dalla natura, ancora una volta alleato e nemico più forte di noi; ho visto un imbecille fare il bagno in Piazza San Marco e Inzaghi postare la sua vicinanza alla città, inconsciamente rievocando gli antichi fasti di una carriera da allenatore sulla panchina del Venezia, prima del tracollo a Bologna.

Ho visto la mia università seriamente compromessa, e questo mi fa male.

Ho visto la sede di anglistica e germanistica sventrata, e questo mi fa male.

Non ho visto tante altre cose, e questo mi fa male.

 

Adesso basta.

Silenzio.

Quel silenzio che ti fa alzare la testa, quel silenzio di Gröning e Simon e Garfunkel, quella riflessione e vicinanza emotiva per gli altri, i veneziani, e per noi, un popolo di branzini pronti ad abboccare all’amo dello slogan, dell’informazione rapida e incauta, dell’istantaneità del meme social, della pubblicità.

Il rispetto è anche tacere, alle volte. “Silenziosamente (ri)costruire”, giusto per storpiare Fabi, che spero mi perdoni.

 

L’esperienza veneziana, se correttamente orientata, potrebbe essere miccia che accende un’opinione pubblica finalmente mobilitata ai principi della solidarietà, e dunque della vicinanza, della comprensione, così come del rispetto e, quindi, anche del silenzio. Un’opinione pubblica che non si spoglia del consueto scontro ideologico, caratteristico quanto giustificato da secoli per convenzione e cultura, ma che lo mette semplicemente da parte.

 

Amo Venezia e i veneziani, come il biker migliore amico di mia madre, amo la Venezia fonte di ispirazione di Mann e Heminguay, la Venezia di Tintoretto e, per adozione, del pievano Tiziano.

Amo pensare di non rinfacciare i problemi senza citare la storia, di non dire “Visto? Te l’avevo detto!”, di non accattivarmi l’attenzione dell’elettorato partendo dalle macerie di una disgrazia, forse di non essere nemmeno così moralista. Ma di poter mobilitare nuovamente, per quanto possibile e, perché no, ricorrendo alla scrittura, il nostro pensiero critico, incluso il mio, di fronte a un dramma come quello occorso all’eterna Venezia.

Per poter, silenziosamente, (ri)costruire.

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