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In missione "là dove si impara il bene" (Fianarantsoa-Madagascar)

[...] se vediamo la stessa luna, non siamo poi così lontani


In missione "là dove si impara il bene" ( Fianarantsoa-Madagascar)

Erika Spironelli

 

15 agosto 2019. Due ore di sonno, sveglia alle quattro, due aerei, uno scalo, più di 16 ore di viaggio, la stanchezza, l'atterraggio, la coda per il visto, l'attesa dei bagagli. Tutto molto lungo, tutto estremamente estenuante. E poi la "Maison Don Bosco", che a leggere "Don Bosco" si finisce per sentirsi sempre a casa. E così, il Madagascar mi ha accolta davvero, anche se forse sarebbe più corretto parlare di un rapimento volontario. Il Madagascar, con la sua terra rossa, che sembra incutere rispetto a qualunque altro colore, che finisce per sbiadire umilmente, se postole a fianco. Ciò che non sbiadisce mai, però, è il sorriso della gente, lingua universalmente nota per la sua semplicità e pratica applicabilità. Non conoscere né il francese né la lingua locale, non fa di me una così gran sprovveduta, diversamente da quanto pensavo. Si sa, dove non arrivano le lingue, compensano i volti e, qui, i volti sono carichi di accoglienza e rispetto per l'altro, anche quando “altro” diviene sinonimo di “straniero”.
La prima parola che mi hanno insegnato? "Misaotra", cioè "grazie". Ma è l’inizio, solo l’inizio di una grande e immensa opportunità, che mi è stata data, che ho scelto, che ho colto. E se considero che la mia meta ultima è Fianarantsoa - "là dove si impara il bene"- questa avventura non potrebbe cadere sotto migliori auspici.


Ottobre 2019. Ormai sono trascorsi quasi due mesi dal mio arrivo in questa terra così elegante e selvaggia a un tempo. La mia missione è entrata nel vivo tanto da farmi sentire parte di questo mondo così diverso e dissonante da quello che sono solita chiamare “quotidiano”. Ora, è normale iniziare la mia giornata svegliandomi alle 5.40 della mattina; è normale fare a meno dell’acqua corrente per più giorni di seguito o rinunciare ad una doccia calda a fine giornata; è normale condividere un piatto di riso, accompagnato da una semplice loca, insieme a tante, tantissime persone; è normale impiegare ore per percorrere pochi chilometri e girare per le vie della città a bordo di sgangherati taxi brus. E, ancora, è normale addentrarsi tra le bancarelle del “mercato grande”, attorniati da persone disposte a vendere e acquistare qualunque cosa; è normale abituarsi agli odori pesanti che impregnano l’aria, alle fogne a cielo aperto, agli animali, addomesticati e non, che corrono da ogni parte, perché ancora padroni e abitanti della terra alla stregua degli uomini.


Ciò che non è normale, ciò a cui mai si riesce a fare l’abitudine, è l’estrema povertà che sosta agli angoli delle strade, spunta dalle case, reca con sé disperazione, pur rimanendo fermamente aggrappata a una dignità che non si arrende, che non vuole crollare.


Ma quella che sto vivendo non è una storia triste, quanto piuttosto di consapevolezza, personale e di ciò che si trova nel mondo. Per certi aspetti, direi che si tratta di una storia a lieto fine, un lieto fine che, giorno dopo giorno, viene scritto tra i muri dell’Orphelinat Catholic – il più grande orfanotrofio d’Africa, gestito dalla congregazione delle suore Nazarene e ospitante 180 bambini e ragazzi tra gli zero e i 17 anni - e della comunità per giovani di Ambalakilonga. È tra queste due realtà che divido le mie giornate, mettendomi in ascolto e offrendo le mie braccia, le mie gambe, i miei occhi come posso, come so. 


Tra gioco, attività educative, lezioni di italiano, esperienze in carcere e vita di comunità, le mie giornate scorrono veloci, assumendo un passo nuovo, uno sguardo che si fa giorno dopo giorno bambino, ricolmandosi di stupore, pronto a imparare ancora e ancora


Mi chiedono di scrivere, di descrivere ciò che vivo, ciò che sento. Eppure, ogni frase, ogni parola non mi sembra abbastanza, non mi sembra adeguata a raccontare la pienezza di quanto mi è stato concesso di provare, di testare, di assaporare, di indossare in questi mesi. 


Solo una cosa mi sento di affermare senza titubanza. Solo una lezione ritengo di poter condividere senza ammantarmi di un ruolo d’insegnante che non mi appartiene: se vediamo la stessa luna, non siamo poi così lontani; se le nostre mani sono capaci della medesima tenerezza, non siamo così diversi; e se i nostri volti indossano lo stesso sorriso, evidentemente, è perché siamo custodi dello stesso amore.

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