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III. Così cominciò la sua discesa nel mondo.

Va'e rimettilo in ordine, il Padre gli disse. Allora è venuto e, come uno straniero, s'insinuò nel formicaio dei mercati. Passò accanto alle baracche dove i prudenti e gli astuti offrivano le loro merci, vide le mani febbrili dei venditori rovistare tra tappeti e gioielli; udì le consorterie dei sapienti lodare le nuove invenzioni: modelli di stati e di società...


III. Così cominciò la sua discesa nel mondo.

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Va’e rimettilo in ordine, il Padre gli disse. Allora è venuto e, come uno straniero, s’insinuò nel formicaio dei mercati. Passò accanto alle baracche dove i prudenti e gli astuti offrivano le loro merci, vide le mani febbrili dei venditori rovistare tra tappeti e gioielli; udì le consorterie dei sapienti lodare le nuove invenzioni: modelli di stati e di società, ricette per vivere felici, macchine volanti verso l’assoluto, trabocchetti e immersioni verso il nulla beato. Passò accanto alle statue degli dei, noti ed ignoti, diede un’occhiata nelle riserve dello spirito, dove balle e botti si ammucchiavano a torre (giacché, fin dallo stadio animale, c’è nel sangue dell’uomo l’istinto alla sicurezza e al nascondiglio), alzò il sipario di certe locande, dove l’assenzio del sapere segreto offre l’accesso ad inferni o paradisi artificiali. Salì sopra un monte, vide paesi, sentì ridere e piangere, notò in qualche alcova uomini e donne aggrovigliarsi furenti e nella stanza vicina gemere una partoriente; morti venivano portati fuori accanto a bambini che andavano a scuola. Venivano costruite città sulle ceneri di abitazioni precipitate, qui infuriava la guerra, là si stendeva sazia la pace; l’amore rideva di odio, e l’odio di amore crudele, fiori e marciume, vizio e innocenza crescevano disperatamente l’uno nell’altra e mescolavano inestricabilmente il loro odore. Un grande immenso rumore confuso di mille voci usciva dal turbinio, polvere e fumo vorticavano insieme, e tutto sapeva dolcemente di luridume e di corruzione. Nessuno conosceva il nome del Padre.

Egli era la luce e tutti erano ciechi. Era la Parola e tutti erano sordi. Era l’amore, ma nessuno sapeva neanche lontanamente che c’era. E camminando attraverso la folla, che quasi lo soffocava, nessuno l’ha visto. Fissò il suo sguardo divino su questo giovane, su quella ragazza, ma essi non l’hanno avvertito e subito si sono distratti. Nel luccicare della notte del mondo la sua fiamma sembrava ancora più misera di una torcia a vento, la sua voce echeggiò come quella di un uccellino nel rumore di una cascata. Due mondi si incrociavano nella sua anima, ed era intollerabile la fatica di abbracciarli nella loro opposizione con un unico sguardo. Questa vita di ogni giorno, questa strada piena di gente che insegue i suoi affari, ognuno quello suo proprio; calzolaio o panettiere, uno pensa al latte o alle lettere, si riconoscono ai vari vestiti i vari uffici, che si scambiano l’un l’altro. Hanno istituito un’autorità e un potere di ordine, alcuni si denominano poeti perché descrivono in versi i loro traffici, o anche l’intonazione dell’esistenza, e alcuni regolano tutto il movimento dal punto più alto. Molti si conoscono e si salutano l’un l’altro, e tutti sanno una cosa: tutti insieme facciamo qualcosa che si chiama umanità; un brivido di orgoglio scorre loro attraverso le vene, un sentimento nobile all’idea di formare il cerchio rotondo che porta in se stesso la sua legge e il suo significato; c’è un accordo fra noi: nessuno di noi va oltre i termini di questo punto chiuso. Abbiamo molta considerazione per le manchevolezze di questa nostra creazione, ma siamo anche pieni di sospetto per tutti quelli che la mettono interamente in questione. Perché se nei particolari qualcosa potrebbe essere migliore, nell’insieme tutto è come dev’essere.

Egli aveva però un altro occhio. Li osservava con gli occhi del padre: ciò che essi chiamavano mancanza era per lui una lebbra orripilante sul volto e sopra tutto il corpo, una piaga, un bubbone, che rodeva la loro anima e li storpiava e deformava. E ciò che essi chiamavano legami erano pesanti infrangibili catene che trascinavano penosamente spinto da dèmoni; e ciò che celebravano come la modestia serena dei loro limiti, vista da dentro era una disperazione infinita. Un vuoto, come una fame sorda, si spalancava nelle loro anime, ma non era un vuoto che li dilatava, bensì li stringeva e delimitava, e toglieva loro la mente e i sensi. Camminavano brutti e nudi, ma credevano di coprirsi a vicenda e avevano perduto la sensazione del freddo. Poiché era così cattiva la peste da cui erano infetti che, senza accorgersene, ne avevano perso completamente il senso. Erano morti, ma così totalmente morti da credere di essere vivi. Erano separati da Dio e così lontani dalla sua verità da illudersi che tutto fosse a posto. A tal punto in balìa del peccato da non sapere più che cosa fosse peccato. Così reprobi da considerarsi eletti. A tal punto assegnati all’abisso e alle fiamme che l’abisso era diventato per essi Dio e il fuoco amore.

Si trovava ora al margine del loro paese: come doveva varcarne il confine? In quale lingua potevano capire il suo annuncio? In quale versione o simulazione avrebbe trovato accesso alloro udito? In che modo avrebbe dovuto velare lo splendore dell’eternità sul proprio viso per contattarli senza spaventarli? Ma se si mascherava e compariva tra loro come uno di loro, tutto diventava ancor più difficile. Come avrebbe potuto contraddistinguersi? Come far loro capire che era diverso? Come sarebbe stato possibile pretendere da essi, nel suo vestito di carne, una fede come a Dio? Avventura rischiosa, impresa impossibile! Non avrebbero potuto non scandalizzarsi di lui. Avrebbero confuso tutto. I suoi discorsi e pronunciamenti li avrebbero intesi come una nuova dottrina morale e un piano di rinnovamento del mondo, e il suo esempio come quello di un maestro di religione. E quando egli avesse aperto il mantello e un raggio del suo cuore li avesse colpiti, si sarebbero spaventati e avrebbero gridato allo scandalo e messo mano alle pietre, se non si fosse subito di nuovo nascosto dietro la sua maschera. E alla fine l’avrebbero eliminato come un blasfemo («seduce il popolo») in nome della legge e del rispetto di Dio, e innalzato come un esempio per tutti i tempi a venire. Che dunque egli sia un uomo come loro o che rimanga quel Dio che è! Ne avrebbero tratto altrimenti una grande confusione. Avrebbero cercato di ingraziarselo e di inserirlo nelle loro ragnatele, di strumentalizzarlo a favore della loro volontà di potenza e di perfezione o della loro smania di primi posti; e si sarebbero vergognati di una sua richiesta di venerazione. E quando avesse chiesto amore, calore, aiuto e intimità, allora si sarebbero tirati ostilmente indietro e l’avrebbero espulso in una solitudine divina o infernale.

Nonostante tutto vuole provare. Domanda consiglio al suo cuore, che gli fa percepire le piccole gioie e dolori di ogni giorno. Di questo parlerà, in questo si nasconderà. Ed ora, voi uomini e donne in movimento, fermatevi, guardate e meditate questo spettacolo!

L’eterna sapienza, che scruta le profondità di Dio e che, nata prima della stella del mattino, progetta i mondi e le loro vie, i destini e le strade di ogni cosa, guardate come tutt’a un tratto si mette a balbettare e a raccontare come una bambinaia, e come narra piccole storie (storie «vere», che si sono forse già verificate): «C’era una volta un uomo che aveva due figli. . .». E i bambini sgranano gli occhi e battono le mani e reclamano ancora un’altra storia! «C’era una volta un seminatore che andò sul campo a seminare.. .». Cento di queste storie e i bambini tengono fissi gli occhi e la bocca e trovano che è buffo ed emozionante. Ogni vicenda umana la si può convertire in simbolo, e tutto ciò che la sapienza creò un giorno dalla sommità delle stelle oggi diventa per voi, dato che cammina travestita in mezzo all’umanità, uno sgabello sul quale ci si può alzare per sentire la sua voce.

Questo tenta di fare lo straniero di cui si tratta e insinua non si sa quale melodia nelle sue favole perché le si ascolti attentamente. Un gusto e un profumo come di casa paterna. Un vento che soffia ovunque, e lo si sente, ma nessuno sa da dove viene e dove va. Arriva a toccare qualcosa e a far ricordare cose da lungo tempo dimenticate, a ferire un qualche delicato invisibile strato interno in un punto sconosciuto. Attraverso il povero brusìo di umane parole è una musica lontana paradisiaca che risuona e gonfia le vele delle anime con arcani presentimenti.

Ma essi hanno orecchi e non sentono. Un’intelligenza e non comprendono. Tutti i loro sensi sono chiusi verso il mondo vero. E non solo le sue parole, ma neppure le sue azioni e i suoi gesti essi li sanno interpretare. Solo all’interno dei loro circoli essi sanno ordinare un evento; lo interpretano degradandolo alloro livello. Comprendono qualcosa di nuovo solo in quanto parte del loro vecchio mondo. Sono come il bestiame che vede solo le erbe e divora quelle gradevoli al suo stomaco. li principe di questo mondo li tiene ancora alla corda e ha gettato un velo sopra i loro occhi. Quando il nostro straniero distribuisce loro del pane nel deserto, allora essi credono confusi di aver riconosciuto il loro maestro; gli corrono dietro come sui monti un gregge di capre che sente il sale e il sudore; e lui dovrà fuggire e nascondersi per liberarsi della brama dei loro istinti. Ma i loro pastori si sono già allertati e aguzzano diffidenti le orecchie: hanno fiutato l’arcinemico e non desisteranno fino a che non l’avranno annientato sotto i loro colpi.

No, parlare ed agire non serve. Deve lui procurar loro gli occhi che possano vederlo, procurar loro gli orecchi che non hanno per ascoltarlo, un tatto sconosciuto per sentire Dio, un gusto e un olfatto per gustare i cibi e odorare i profumi di Dio. Tutto intero il loro spirito egli lo deve rifare nuovo dal fondo. Ma il prezzo per tanto sarà estremo: dovrà prendere su di sé i loro sensi ottusi e morti, e perdere il Padre suo e tutto il mondo celeste. Nella morte e nell’inferno dovrà sciogliersi il suo gravido cuore, e come totalmente annichilito e dissipato in un mare informe si darà ad essi da bere, come la bevanda di amore incanterà finalmente i loro semplici cuori.

Il cuore del mondo deve crearsi da sé il suo mondo. Il capo del mondo deve formarsi da sé il suo corpo. Finora aveva valore nel mondo una legge: suscita amore ciò che è bello, ciò che ci piace, ciò che non sembra indegno del nostro amore; infiammato a ogni pregio dell’amato si alimenta il fuoco della nobile simpatia. Sul ponte dei valori congeniti cammina l’inclinazione umana. E alla lunga muore l’amore che non si nutre di contropartite, di doni ricambiati. Così vuole la natura, giacché Dio ha creato i suoi figli gli uni per gli altri e riforniti di qualità per piacersi tra di loro.

Ma quale comunione sussiste tra Dio e il peccato? Quale simpatia vorrebbe mediare tra la luce e le tenebre? Dal nulla un giorno la parola di Dio ha creato il mondo, da meno che nulla, dall’odio egli deve una seconda volta generare il mondo della grazia. Far scaturire acqua da una roccia. Ciò che sarà degno del suo amore egli stesso se lo deve procurare. Deve produrre non solo l’amore che ama ma anche quello che risponde e riama. Creare con la forza della parola (Wort) anche la forza della risposta (Antwort). Non ha nessun tu in cui perdersi, genera nella sua solitudine la controimmagine dell’amore. Abbandona la tenebra alle sue fiamme; e fa sì che il mondo, che non lo vuol conoscere, diventi suo corpo; e dalla solitudine dell’unico corpo egli genera la sua sposa.

È come se il sole sorgesse sopra il caos e lo illuminasse traendone un mondo di solo deserto, ghiaccio e roccia. Non un animale, una vita, una selva, una canna, un seme, non una traccia, una possibilità di vita. E sopra questa morte splende la luce del mondo. Splende e splende, si diffonde dalla sua riserva da un giorno all’altro, sorge e tramonta placido e tranquillo, dona e dona vita - ma la vita era la luce degli uomini - finché un giorno avviene il miracolo e una prima tenue punta affiora dal terreno, poi una seconda, dodici punte e settantadue, finché dalla graziosa morte del primo seme si distende un esile strato di terra fertile, si alza la prima ombra del primo cespuglio, si animano le arie germinando, i fiumi si coprono di verde lungo le sponde, e finalmente, ormai diffuso il bel tappeto continuo, appare anche l’uomo regale e apre il suo occhio grato alla luce materna che lo genera.

Ma chi è questo sole? Chi si è assegnata una simile servitù di amore? Chi è la luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo? È un cuore come il nostro, un cuore d’uomo, che pure ha sete d’un ricambio d’amore. Come altri cuori che esistono, pieni di calda follia, di incompresa speranza. Pieni di ostinazione. Un cuore che appassisce se non viene amato. Chi vive per tutta una vita in mezzo a soli nemici? E dovesse qualcuno naufragare, come Crusoe, su un’isola solitaria, egli porterebbe sempre la memoria d’una sua gioventù e nutrirebbe il suo isolamento con le immagini di un’amicizia lontana. Un cuore d’uomo non è come Dio: non gira in se stesso, non basta a se stesso. Batte, pulsa, cerca, ha bisogno di sangue altrui per vivere esso stesso. Un cuore d’uomo non è, come Dio, onnipotente: non può da padrone creare con una parola. Dio disse: Fiat! E fu fatto. Che cosa può un cuore se non trova amore ricambiato? Che cosa farà se noi non lo vogliamo amare?

Tutto sarà più difficile di come sembrava dal cielo. Visto da lì l’amore era l’irresistibile, il sicuro vincitore. Bastava solo avvicinarsi agli uomini con il calice pieno, e gli assetati si sarebbero inginocchiati mendichi per un sorso. Dovevano avvertire una vicina salvezza, altro non avrebbero potuto fare. In questa certezza egli era venuto. Ed ora che è là vestito di oscura carne, e nel suo petto batte questo cuore di carne, come tutto è diverso, estraneo, di come lui pensava! Quanto questa veste oscura il celeste raggio!

E di quanta cautela ci sarà bisogno! Come lieve, esitante egli dovrà porre il piede a terra affinché non abbiano a urtare nel suo amore, non abbiano a fraintenderlo! Giacché essi intuiranno il grande calore del suo cuore, e allungheranno le braccia per afferrarlo. Ma non è questo l’amore che lui intende e dovrà per amore sottrarsi ad essi, dovrà mostrarsi gelido e far violenza al suo cuore. E più duro ancora sarà il fatto che egli, a coloro che ama, dovrà non solo donare il suo amore ma insegnarlo loro e senza pietà educarli alla sua stessa compassione, spingerli in una solitudine soffocante come la sua. Alla creatura umana a lui più cara dovrà con le sue mani trafiggere il cuore con sette spade, lasciar morire di proposito il suo amico (e ne soffrirà amaramente), e coloro che a fatica aveva raccolto nel suo gregge dovrà spedirli nel mondo inermi come agnelli tra lupi. Non dovrà soltanto sottoporre a disciplina ogni creatura che lui ama per farla crescere, ma affliggerla di pene per iniziarla al mistero del nuovo amore.

Dalla solitudine di un cuore venne redento il mondo. Non mediante la bella solitudine della clausura, che si protegge nel guscio contro le ferite della vita, bensì mediante quella che ci getta inermi in balìa della folla e della furia. Mediante una solitudine in cui il cuore, oscillando piano nell’acqua ghiacciata delle impossibilità, avvertirà l’amore come la fredda lama di una spada e come una ferita sempre viva. Il popolo è stolido e animalesco, i sacerdoti stanno in agguato, i discepoli sono di dura cervice e litigano per il primo posto, uno dei dodici lo tradirà. Nella sua patria, nella sua città paterna, perfino nella casa paterna, il profeta urta nella diffidenza, i cugini lo ritengono matto. Per colpire lui si assassinano i bambini. Viene tirato di qua e di là, perché nessuna posizione è sopportabile sul letto stretto. Talvolta passa all’attacco, li vuol costringere all’amore, li minaccia di morte eterna qualora non mangeranno il suo corpo e si rivela davanti ai tre prediletti nell’estasi della sua gloria innata. Ma subito si ritira perché non lo amino per costrizione: nessuno può costruirsi una capanna allo splendore della sua luce celeste. Comunque egli si volga, la prenderanno a male. Simile al vasaio che modella il suo vaso sulla ruota in movimento, egli modifica il suo cuore per rioffrirlo diversamente. Inutile: non fanno attenzione. Sanno già tutto. L’hanno pesato e trovato troppo pesante. Come è leggero il loro amore: capisce subito, non impara la fatica, è come dormire e mangiare. A che pro la gran fatica, la danza vertiginosa sulla corda in alto, che torce lo spirito, che sbaglia le misure? Vi si rifiutano, lui vaga in mezzo a loro come un estraneo. In mezzo al suo mondo Dio ha imparato ad essere ciò che era da sempre: solitario e uno. Con la solitudine ha redento il mondo.

Tuttavia la solitudine non è ancora abbandono. Perché anche il sole nel cielo è solo. Ma che sarà se questo sole sprofonda nelle tenebre? Naufraga in se stesso? Ogni cuore vive di speranza. Essa sola impedisce la vertigine sul ponte sospeso del tempo composto di aria che oscilla di secondo in secondo sopra l’abisso del non essere.

Il cuore batte: per che cosa? Per domani, per giorni più belli, e sembra sempre che la via piana davanti agli occhi si metta a salire. Venga a noi il tuo regno. È già arrivato il regno dei cieli, vicinissimo. Solo ancora un momento, figli miei... rari sono i fedeli finora, ma spera e lavora, mio cuore, non si potrà resisterti in eterno. «Simone, vedi quella donna?» C’è un senso di trionfo nella voce. Ciò che è riuscito adesso, l’amara fiala si è rotta e il profumo è stato versato e anche le lacrime, un giorno si verificherà anche per te, fariseo, anche se forse tardi. Speranza del cuore di Dio. TI regno di Dio somiglia a un seme d’albero di senape che (un misterioso sorriso accompagna queste parole) è molto più piccolo di tutte le sementi del giardino..., e in ispirito egli vede l’albero, cresciutogli dentro il cuore, dentro ai cui rami nidificano gli angeli del cielo, e la sua corona fruscia alta nel sole, nel vento del Padre.

Ma ecco lo sguardo cade sulla terra, ed egli si sveglia come da un sogno. Dove è il regno? E chi vi appartiene? Quale di questi dodici, di questi settantadue, è degno di varcare la soglia? E dove sono loro, gli altri, gli innumerevoli, che il Padre gli ha affidato? È cresciuto, il regno, dai giorni del battesimo nel Giordano? Le folle non si sono dileguate nell’ora della grande promessa? E i dodici non lo tradiranno anche loro? Il regno non gli sfuggirà come sabbia dalle dita come un sogno fuggitivo? Con la forza di quale incantesimo ci arriverà? Come lo potrà procurare? Come potrà un solo cuore bastare per trasformare l’inferno in paradiso? Ed io non posso dire: Padre, fallo tu il regno, perché la creazione l’hai affidata a me, mi hai messo il mondo sulle spalle. Speranza! Di che? Non negli uomini, e non nel tempo, e neppure in Dio... Speranza, in chi? In me stesso? Nella forza del mio amore? Ma basta per arrivare fino alla fine? E se viene meno, che cosa sarà? E se io dovessi riconoscere sulla croce che è stato tutto vano? E se il regno si dilegua nella notte e nel grande grido si spacca il mio cuore, perché non ce la fa più? Perché la forza di Dio, con cui è partito - nella speranza - si è ritirata da lui? E là, dove gli è caduta l’ultima goccia di acqua e sangue, e lui si irrigidisce contro il vuoto spalancato del cielo, là lo incenerisce il comando del giudice irato, minaccioso, terrificante?

Difficile è la riuscita, ma ancor più difficile il fallimento. Più difficile l’esperienza dell’impotenza e la certezza della fine. Così inverosimile è il fiore della grazia che essa cresce dalla più dura pietra della impossibilità. La grazia viene regalata gratis, e questo gratis bisogna soffrirlo fino in fondo. Giacché alla fine tutto è gratis, invano ci si sforza di raggiungerlo, gratis è il mondo quanto la grazia. Quando Dio perdona, il suo perdonare (Vergeben) è inutile (vergeblich), come buttato via. Quale amore non è spreco?

Perciò il sole deve spegnersi, e il cuore di Dio deve fallire. Ed esso dovrebbe essere così forte da non sottrarsi alla debolezza più estrema. Come una barca fessa quando comincia a fare acqua nessuna invocazione la salva dell’affondare. Giacché la sapienza di Dio ha deciso di vincere perdendo, e così si è svuotata in follia totale. È da folli morire per una causa perduta. Da folli sperare là dove tutto è da lungo tempo finito. L’amore di Dio è diventato sciocco e senza nessuna dignità.

Adesso egli poggia il piede nel fondo senza fondo, nella melma del mondo, nella palude del peccato. Le onde della tentazione lo assalgono: il regno si potrebbe ancora salvare! Credi nella tua potenza! Confida nella stella dei magi! Fa’che le legioni angeliche ti portino al di sopra del precipizio! Compi il miracolo che incatena a te il loro cuore! Regala loro divertimento e pane! Piega il ginocchio del tuo temerario cuore (inginocchiarsi è bene) e adorami! Padre! grida il cuore nel suo vertiginoso precipizio, nelle tue mani, che io non vedo più, le mani che si sono aperte per lasciarmi cadere, che mi raccoglieranno dal fondo senza fondo, nelle tue mani affido il mio spirito. Il mio Santo Spirito.

Il cuore è diventato spirito, e nel soffio dello Spirito è stato partorito il mondo nuovo. Un grande tuono riempì la casa, finestre e porte volarono, ed occhi ed orecchi. L’armatura è saltata da dentro, e il tetto dalla vista è sparito. Fino al suo annientamento ha amato l’amore del cuore, ed essendo diventato invisibile in sé, è apparso nel cuore dei redenti. Prima era un sole, solingo nella fredda notte del mondo; adesso brilla distribuito, come un firmamento di stelle. Sembrò lottare con le tenebre e venir sopraffatto dal caos e sprofondare nell’imo infero. Ma nessun nemico è più forte e nessuna notte è più notturna della luminosa tenebra dell’amore.

Hans Urs Von Balthasar

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