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Gli angeli del fango nella città sott'acqua

Tanti giovani così, nella città più vecchia d'Italia, non s'erano mai visti. Spalano, spazzano, trascinano secchi e strizzano stracci...


Gli angeli del fango nella città sott'acqua

 

Tanti giovani così, nella città più vecchia d'Italia, non s'erano mai visti. Spalano, spazzano, trascinano secchi e strizzano stracci. Scarpe melmose, pantaloni fradici. Sorrisi dipinti di fango. Sono arrivati a piccoli gruppi ieri mattina presto, quasi timidamente, nel pomeriggio erano migliaia. Appuntamenti dati la sera prima al computer su Facebook o con Whatsapp via telefonino. In autobus fin dove si può, poi a piedi fino alle strade del disastro. Con guanti da officina, qualche vanga, una scopa, quello che hanno trovato in casa.

 

 

Molti da Milano e dal Piemonte: scendono alla stazione Brignole e il disastro è già lì, davanti ai loro occhi. "Cosa devo fare?", chiedono. E nel loro sguardo c'è una luce - un rispetto, un senso di appartenenza, di solidarietà, una voglia di dare senza nulla in cambio - che restituisce fiducia a chi giovedì notte ha perso tutto e stava per dire basta, perché questo Stato non c'è più. Invece no. Forse c'è ancora speranza, un altro mondo è possibile. Studenti, i rugbisti delle squadre liguri. Venditori ambulanti senegalesi, i giovani musulmani delle moschee del centro storico. L'altro mondo. Gli angeli del fango.

 

 

"Sono tutti come dei figli, per me", si commuove una barista di via Canevari mentre i ragazzi sgomberano i suoi locali e chiedono scusa, quando sono costretti a gettare via la roba ormai irriconoscibile. Lei offre qualche bibita e dei succhi di frutta sopravvissuti in un frigo. È tutto quello che ci sarà da bere fino al tramonto. Inutile chiedere alla Protezione Civile o al Comune di Genova se forniranno qualcosa da mangiare, un panino almeno, una bottiglia d'acqua. Per tutto il giorno non si è visto nessuno delle istituzioni. Così la barista si scusa, non ha altro da dare. "Grazie, signora. Sì, arrangiamoci da soli. È molto meglio".

 

 

Stefano Bordon, un veneto corpulento, vent'anni fa era un giocatore della Nazionale di rugby. Adesso allena la squadra del Cus Genova. Ieri mattina è andato su tutte le furie, quando ha scoperto che i suoi atleti erano andati ad aiutare gli alluvionati proprio alla vigilia del match di serie A con il Torino. Poi ha tirato un lungo respiro, si è arrotolato le maniche ed ha raggiunto Francesco Avignone, studente dell'Accademia di Belle Arti, pilone barbuto e tatuato della squadra universitaria. Hanno sgomberato un magazzino. Ai genovesi si sono uniti i rugbisti di Recco, tradizionali rivali: tra un mese si prenderanno a legnate nel derby, ma oggi è un'altra partita. "Nel fango ci muoviamo bene", dice Avignone. E sotto il barbone s'intravede un sorriso.

 

 

Dopo l'alluvione di tre anni fa si erano presentati con le vanghe indossando una maglietta con uno slogan: "Nessuno è straniero ". Un centinaio di venditori ambulanti senegalesi, guidati da Mamadou Bousso, da oggi torna a dare una mano. E c'è una storia in più da raccontare, quasi surreale.

 

 

Molti dei senegalesi non sono ancora in regola con i documenti: le cartelle con la richieste di permesso erano custodite in quell'ufficio immigrazione della questura che è stato sommerso da acqua e fango, dopo che l'auto blindata della scorta di monsignor Bagnasco - trascinata da una valanga di detriti - giovedì notte ne ha sfondato la vetrata. Addio cartelle e richieste di permesso. Ma loro sono di nuovo lì, a spalare fango. Perché nessuno è straniero.

 

 

Deve essere la prima volta che non gli chiedono un autografo. Adesso non c'è tempo. Luca Antonini, difensore del Genoa e già azzurro della Nazionale di calcio, in via Galata impugna una vanga e lavora duro. È insieme alla moglie. "Dopo quello che abbiamo visto alla televisione, non potevamo restare a casa senza fare nulla. Genova è la mia città. È un dovere, essere qui". Dice che ne ha parlato con altri compagni di squadra. Forse verranno anche loro.

 

 

Via Trebisonda è nel quartiere della Foce, che ancora una volta paga il prezzo dell'alluvione. Il torrente Bisagno scorre poco lontano, sotto viale delle Brigate Partigiane. Ieri mattina una giovane coppia di genovesi si voleva unire ai soccorritori. Lei, 27 anni, in un sacchetto aveva un paio di stivali da indossare prima di mettersi a pulire. Ma è stata colta da malore, ora è ricoverata in rianimazione all'ospedale Galliera.

 

 

Tarik Chibi è il responsabile di Al Fajer, un'associazione che raccoglie i musulmani che fanno capo alla piccola moschea di piazza Durazzo, nella città vecchia. "Ci divideremo in piccole squadre, andremo in tutti i quartieri dove c'è bisogno". Parla anche a nome di altri musulmani delle moschee del centro storico. In tutto sono una trentina di persone, tra i venti e i trent'anni. "Siamo genovesi. E dobbiamo aiutarci tra di noi".

 

 

Emanuele e Angela si sono conosciuti tre anni fa: lei, un'artista, abitava a Borgo Incrociati, che anche allora era stato devastato dal Bisagno in piena e dove giovedì notte è morta una persona; lui, ingegnere, faceva le perizie per chi aveva subìto danni e chiedeva un risarcimento. "Per ritirare la mia pratica parcheggiò male l'auto e si prese due multe. Così è nato l'amore". Le multe puntuali, i risarcimenti no. "Non è mai arrivato un centesimo. Ma intanto noi ci siamo messi insieme, abbiamo aperto una bottega. Però l'altra notte è andato tutto perso". Proveranno di nuovo a chiedere un risarcimento, chissà. Ricominciare è dura. "Se penso alle istituzioni, sì. Ma guardo questi ragazzi che ci stanno aiutando. E allora forse c'è ancora speranza".

 

 

Massimo Calandri

http://genova.repubblica.it

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