Donboscoland

Giovedì 24 Gennaio 2002 da Giovani per i Giovani

Il Papa è ad Assisi, la città d S. Francesco, come “umile pellegrino” che prega per la pace nel mondo. Sono con lui delegazioni di undici religioni e di numerose confessioni cristiane, e rappresentanti di religioni ancestrali africane.Ecco i partecipanti: Cattolici, Ortodossi, Protestanti, Ebrei, Musulmani, Buddisti, Induisti. Adesioni da altre religioni: Sikh, Gianismo, Zoroastresismo, Tenrikyo. Religioni tradizionali africane: Ghana e Benin.


Giovedì 24 Gennaio 2002 da Giovani per i Giovani

da GxG Magazine

del 01 marzo 2002

Sergio Goretti, vescovo di Assisi

\'Assisi per la terza volta(dopo il 1986 e il 1993)viene scelta dal Papa come luogo di preghiera dei credenti del mondo. Si conferma così la speciale vocazione di questa città, patria di san Francesco e di santa Chiara.E’ doveroso riflettere sul significato di questa giornata. E’ una giornata di preghiera. A Dio, che è più potente dei potenti, chiediamo il dono della pace. Lo facciamo mettendoci al suo cospetto, lasciandoci guidare dalla sua parola e dal suo Spirito, implorando luce e sapienza per i responsabili dei popoli e per ciascuno di noi. Il credente in Dio, in qualche modo è un irriducibile: non si arrende e non smette mai di sognare e di sperare: Ama e pertanto chiede, bussa e invoca con perseveranza\'.

Andrea Riccardi, presidente della comunità di Sant’Egidio

\'Rispetto al 1986, quando si tenne la prima giornata di Assisi, oggi lo scenario mondiale è diverso: non ci sono più i due imperi, ma viviamo in una situazione di globalizzazione e di caos, nella quale le religioni svolgono un nuovo ruolo pubblico, sotto la spinta delle passioni nazionali e dei fondamentalismi.Parlare di pace oggi è più arduo ma più necessario. Le religioni, ora scosse da passioni identitarie, devono operare le loro scelte. Penso che l’adesione così larga e corale a questa giornata riveli un bisogno di agire e mi fa ben sperare che l’impegno non resti un grido solitario.\'

Neta Golan, israeliana,30 anni, è un’attivista del \'Movimento internazionale di solidarietà con la causa palestinese\', una pacifista in prima linea, una voce fuori dal coro. Tutta la sua vita è controcorrente. A partire da un fidanzato palestinese, cosa rarissima, e dalla convinzione che arabi ed ebrei possano convivere nonostante 53 anni di sangue. \'L’odio è il frutto avvelenato che nasce sulle macerie. Macerie di diritti, rovine di rapporti… In Israele ci si abitua fin da piccoli a convivere con la diffidenza verso il nemico, a negare i diritti dell’altro per affermare i propri. Ma io credo che arabi ed ebrei possano vivere insieme. Io lo faccio ogni giorno. C’è chi dice che torti e sangue non si possono dimenticare, ma io penso che sia solo questione di buona volontà\\'Mi chiamo Matteo. Due anni fa, per motivi di lavoro, mi sono trasferito da Belluno a Treviso, e lì si è presentata l’opportunità di vivere insieme ad altri giovani. Siamo di culture e religioni diverse; infatti fra noi c’è Salem, che viene dalla Bosnia ed è musulmano;ma ci accomuna il desiderio di fare un’esperienza vera di unità e di fraternità.

A causa della guerra, quando aveva 12 anni, Salem è dovuto scappare con la madre e un fratello in un campo profughi in Slovenia. Il papà e altri due fratelli sono rimasti in Bosnia e di loro non si è più saputo niente. Salem molte volte ci raccontava di quando era in Slovenia e mi colpiva come lui non portava rancore per quanto era accaduto. Mi è nato il desiderio di andare a conoscere la sua famiglia per condividere ancor di più la sua vita. Ne ho avuto l’occasione per due giorni: lì ho potuto sperimentare sulla mia pelle la realtà molto dolorosa di un campo profughi. Tornando a casa, a causa del mio silenzio, mi ha chiesto se mi ero divertito: in realtà avevo provato il dolore di Salem su di me e ora mi sentivo ancor di più parte della sua famiglia; il desiderio di Salem di riportare la sua gente ad una vita dignitosa era divenuto anche mio.Questo amore che cerchiamo di avere fra di noi, vogliamo che raggiunga chiunque incontriamo. Un pomeriggio, mentre ero al lavoro, Salem mi chiama e mi dice che aveva incontrato in moschea un giovane serbo arrivato da due giorni in Italia senza un soldo e un posto dove dormire. A casa gli abbiamo offerto la cena, la doccia e un letto. Vedevo come Salem ce la metteva tutta per volergli bene. Prima di addormentarmi ho pensato a tutto quello che si diceva della guerra etnica… ma io avevo davanti una risposta concreta che mi diceva il contrario: Salem stava aiutando il popolo che qualche anno prima aveva distrutto la sua famiglia e la sua casa.

Naturalmente il dialogo fra di noi non è sempre facile o scontato… su molte cose la pensiamo diversamente… ma ci sforziamo di puntare a ciò che ci unisce, e non a quello che ci divide… Non dobbiamo certo rinunciare alla nostra identità, ma possiamo ascoltarci profondamente e con un piccolo sforzo incontrarci a metà strada per poterci capire. Ci aiutiamo anche ad essere fedeli alle nostre rispettive religioni. Quando a Treviso dopo i fatti dell’11 settembre hanno chiuso la moschea, abbiamo proposto a Salem una stanza della nostra casa, almeno provvisoriamente, per pregare, spargendo poi la voce tra i nostri amici perché ci aiutassero a trovare un posto più adatto.

Questi anni passati assieme ci hanno legato profondamente…\'

Elisabetta Prete, Laura

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  • 24 gennaio 2002

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