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Cap. 6. CONFIGURATI A CRISTO CAPO E SACERDOTE.I. «SI ALZ√í DA TAVOLA».

In forza della nostra ordinazione presbiterale siamo configurati a Cristo sacerdote. Il compito di Cristo sacerdote è quello di ricapitolare attorno a sé tutte le realtà del cielo e della terra: san Paolo adopera infatti il verbo mettere a capo, ricapitolare, in greco anakefalai√≥sasthai, in latino instaurare, per dire che tutte le realtà fanno corpo intorno a lui che è il capo.


Cap. 6. CONFIGURATI A CRISTO CAPO E SACERDOTE.I. «SI ALZÒ DA TAVOLA».

da L'autore

del 01 gennaio 2002

             In forza della nostra ordinazione presbiterale siamo configurati a Cristo sacerdote. Il compito di Cristo sacerdote è quello di ricapitolare attorno a sé tutte le realtà del cielo e della terra: san Paolo adopera infatti il verbo mettere a capo, ricapitolare, in greco anakefalaiósasthai, in latino instaurare, per dire che tutte le realtà fanno corpo intorno a lui che è il capo.

Sant'Agostino usa il paragone di una brocca di creta ridotta in cocci dal fulmine del peccato: le sue parti sono disperse in ogni direzione, nord, sud, est, ovest, e presenta Gesù come il grande ricapitolatore, colui che ricompatta tutte le realtà create disperse dal peccato, tutti i cocci della brocca infranta.

Il nuovo Adam ricompatta l'umanità dispersa

Adam, il primo uomo che ricapitola la prima umanità, - dice sant'Agostino - compie il peccato e sgretola l'umanità, la spacca disperdendola a nord, a sud, ad est, a ovest. Gesù, il nuovo Adam, - conclude sant'Agostino leggendo quel nome come un acrostico - è colui che ricompatta tutte le realtà create da nord, da sud, da est, da ovest. Infatti le lettere iniziali del nome Adam in greco suggeriscono un gioco filologico: A come anatolé, che significa oriente, l'Anatolia, dove sorge il sole; D come dysis, che significa delta, l'occidente dove il sole si immerge (da dyo, immergersi); l'altra A come arktos, che significa nord; M come mesembrìa, che significa mezzogiorno.

Gesù è il nuovo Adam che ricompatta l'est e l'ovest, il nord e il sud, nell'unica persona, nell'unico uomo, che è lui stesso. Il compito fondamentale di Gesù sacerdote è proprio questa ricapitolazione di tutte le realtà nella sua persona, dentro di lui. Questo è il Signore Gesù.

Compito di noi sacerdoti, che siamo configurati a Cristo capo e ricapitolatore, non può essere che questo: essere anche noi ricapitolatori, ricompaginatori. Nostro compito essenziale è mettere insieme, compaginare: tutte le pagine sparse si compaginano attorno alla dorsale, attorno al capo, che è Gesù Cristo.

Per essere ricompattatori, ricapitolatori, coloro che compaginano tutte le realtà create attorno a lui, dobbiamo fare come ha fatto Gesù. Perché noi siamo configurati a lui, primo sacerdote per il mondo e per la Chiesa. Vediamo di scoprire qualche segreto che serva a noi come modello, come spinta, per diventare come Gesù, con assoluta fedeltà, anche noi sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.

La "V" del mistero pasquale.

Gesù ha ricapitolato tutte le cose attorno a sé mediante il mistero pasquale. L'antichissimo inno riportato nella lettera ai Filippesi presenta come una "V": c'è una linea in discesa:

«Cristo Gesù, essendo di natura divina,

spogliò se stesso

assumendo la condizione di servo

e divenendo simile agli uomini,

umiliò se stesso

facendosi obbediente fino alla morte

e alla morte di croce».

E c'è una linea in salita:

«Per questo Dio l'ha esaltato

e gli ha dato il nome

che è al di sopra di ogni altro nome».

La stessa verità la proclamiamo nel Credo: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, - ecco la linea discendente - per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo, fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto». A Gesù non basta sfiorare la terra. Il mistero pasquale scende nelle profondità del nostro caos chiamato a diventare cosmo (chaos significa sbadiglio, kosmos significa bellezza). Col mistero pasquale Gesù scende nelle viscere della terra: «Morì e fu sepolto».

Poi comincia la salita: “Il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre».

Ecco, questo è il mistero pasquale. Gesù ha operato la ricapitolazione di tutte le realtà attorno a sé attraverso il mistero pasquale, attraverso il mistero della sua passione, morte e risurrezione, che ci viene raccontato nel Vangelo in forma longior e in forma brevior.

Tutti e quattro gli evangelisti, infatti, hanno descritto la passione di Gesù; anzi, al dire di Charles Harold Dodd, i Vangeli non sono che il racconto della passione e morte di Gesù più una introduzione. Gli evangelisti riportano in forma lunga la passione, morte e risurrezione del Signore. Ma Giovanni, oltre la forma lunga - Passio Domini nostri Jesu Christi secundum Joannem - riporta anche una forma breve, una specie di sintesi della passione: proprio quella vogliamo meditare, mentre ricerchiamo il segreto del nostro essere, come Gesù, sacerdoti per il mondo e per la Chiesa.

La passione breve secondo Giovanni.

Nel Vangelo di Giovanni si dice: «Gesù... si alzò da tavola, depose le vesti, e, preso un asciugatoio, se lo cinse intorno alla vita. Poi, versata dell'acqua in un catino, cominciò a lavare i piedi dei discepoli. Poi riprese le vesti, sedette di nuovo, e disse loro».

Depose le vesti e riprese le vesti e sedette sono una chiarissima allusione pasquale, un evidente riferimento al racconto della passione e morte e risurrezione di Gesù. In greco, infatti, i verbi deporre e riprendere sono formati dalla radice lambàno, gli stessi verbi che Giovanni mette sulle labbra di Gesù quando dice: «Poiché ho il potere di offrirla (di lasciare la vita) e il potere di riprenderla di nuovo». Lasciare e riprendere le vesti, come lasciare e riprendere la vita. Anche qui c'è un movimento a "V": è in sintesi il mistero pasquale.

Se avessimo più tempo, vorrei approfondire un particolare: Gesù depone le vesti, poi le riprende ma, secondo il Vangelo, non depose l'asciugatoio, se lo tenne: Gesù è diacono permanente, è servo a tempo pieno. Anche noi siamo diaconi permanenti: è strano che questa espressione sia riservata solo a quelli che esercitano questa funzione senza diventar preti. Diaconi permanenti siamo tutti.

Nell'ultima mia ordinazione sacerdotale, - non dovrei metter le mie trasgressioni in pubblico - proprio riflettendo su queste cose, davanti a tanti sacerdoti, quando hanno fatto il gesto di cambiar la stola all'ordinando (quella da diacono si porta per traverso), ho suggerito: «Per questa volta non mettetegli la stola diritta, lasciategliela così, di traverso: si ricorderà che deve rimanere ancora diacono, diacono permanente, per sempre». Il prete non smette mai di essere diacono, servo: perché Gesù, quando riprese le vesti, non si dice che depose l'asciugatoio che aveva preso.

In questa forma breve del racconto del mistero pasquale c'è anche un altro insegnamento per noi: Gesù si alzò da tavola, depose le vesti, si cinse l'asciugatoio, lavò i piedi agli apostoli, poi riprese le vesti, sedette e incominciò a parlare. Si può incominciare a parlare - questo vale per noi - soltanto dopo aver fatto il nostro servizio alla gente.

La lavanda dei piedi, come vedete, non è soltanto il racconto di un buon esempio di Gesù, come è detto nel Vangelo: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri».

Non è solo un buon esempio: è la trascrizione, in chiave abbreviata, del mistero pasquale di Gesù.

Se Cristo, per ricapitolare intorno a sé capo tutte le cose, non ha esitato a farsi servo, anche noi presbiteri, configurati a Cristo sacerdote, dobbiamo farci servi per ricapitolare tutte le cose intorno a Gesù Cristo capo.

Userò anch'io la forma breve, limitandomi a illustrare tre verbi con alcune considerazioni fugaci. Questi tre verbi sono: si alzò da tavola, depose le vesti e si cinse un asciugatoio.

I. «SI ALZÒ DA TAVOLA».

Secondo me questo gesto significa due cose: se non ci alziamo da tavola, se non ci alziamo da quella tavola, ogni nostro servizio è superfluo, inutile, non serve a niente. Qui arriviamo al punto nodale di tutte le nostre riflessioni, di tutta la revisione della nostra vita spirituale. Diciamo la verità: è probabile che noi si faccia un gran servizio alla gente, molta diaconia, ma spesso è una diaconia che non parte da quella tavola.

Solo se partiamo dall'eucaristia, da quella tavola, allora ciò che faremo avrà davvero il marchio di origine controllata, come dire?, avrà la firma d'autore del Signore.

Ricordate quanto si è detto circa la Chiesa de Trinitate e ad Trinitatem, con la stazione intermedia dell'eucaristia da una parte e del mondo dall'altra: se non partiamo dall'eucaristia la nostra è soltanto un'attività faccendiera, saremo sempre super-oberati da mille cose, faremo si le opere della carità ma senza la carità delle opere, come ci è stato ricordato nell'ultima Conferenza Episcopale Italiana, quando ci è stato presentato il documento Evangelizzazione e testimonianza della carità.

L'eucaristia alla base della contempl-attività

Attenzione: non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l'amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l'eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose.

Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell'azione. La contempl-attività, con due t, la dobbiamo recuperare all'interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: si alzò da tavola vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell'abbandono in Dio, la necessità di una fiducia straordinaria, di coltivare l'amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo, di poter essere suoi intimi.

Non ditemi che sono un vescovo meridionale che parlo con una carica emotiva di particolari vibrazioni: le sentite pure voi queste cose; tutti avvertite che, a volte, siamo staccati da Cristo, diamo l'impressione di essere soltanto dei rappresentanti della sua merce, che piazzano le sue cose senza molta convinzione, solo per motivi di sopravvivenza. A volte ci manca questo annodamento profondo.

Qualche volta a Dio noi ci aggrappiamo, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparsi è una cosa, abbandonarsi un'altra. Quand'ero istruttore di nuoto - ero molto bravo, e quando ero in seminario tantissimi hanno imparato da me a nuotare - quante volte dovevo incoraggiare gli incerti: «Dai, sono qui io; non ti preoccupare». Se qualcuno stava annaspando o scendendo giù, io gli passavo accanto e quello si avvinghiava fin quasi a strozzarmi. Questo è solo un abbraccio di paura, non un abbraccio d'amore.

Qualche volta con Dio facciamo anche noi così: ci aggrappiamo perché ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo. Abbandonarsi vuol dire lasciarsi cullare da lui, lasciarsi portare da lui semplicemente dicendo: «Dio, come ti voglio bene!».

Dobbiamo alzarci da quella tavola.

Allora: se non ci alziamo da quella tavola, magari metteranno anche il nostro nome sul giornale, perché siamo bravi ad organizzare chissà quali marce o quali iniziative per le prostitute, per i tossici, per i malati di Aids. Diranno che siamo bravi, che sappiamo organizzare; trascineremo anche le folle per un giorno o due; però dopo, quando si accorgono che non c'è sostanza, che non c'è l'acqua viva, la gente se ne va.

Ma alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa anche un'altra cosa. Significa che da quella tavola ci dobbiamo alzare: significa che non si può star li a fare la siesta; che non è giusto consumare il tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee.

Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre prediche. Ma c'è anche da fare i conti con la sponda della vita. Spesso, come lamenta il papa nella Christi fideles laici, c'è una dissociazione tra la fede e la vita.

La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e li dentro siamo anche bravi; ma poi non ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Bisogna uscire nella strada in un modo o nell'altro: c'è uscito anche Giuda, «ed era notte».

Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da quell'intimismo ovattato dove le percussioni del mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non penetra mai l'ordine del giorno che il mondo ci impone.

Ecco, carissimi confratelli, questo è il primo verbo che dovremmo meditare moltissimo.

Tonino Bello.

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