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Bergomi: abbiamo bisogno di testimoni

Ho sempre pensato che per essere capitano bisognasse dare l’esempio...


Bergomi: abbiamo bisogno di testimoni

del 23 febbraio 2017

Ho sempre pensato che per essere capitano bisognasse dare l’esempio...

 

«I bambini non si possono deludere». Autografi, pacche sulle spalle, buffetti. Raramente Beppe Bergomi, campione del mondo  nel 1982 e bandiera dell’Inter per vent’anni, dice di no. E se sui campi da calcio “non si fermava davanti a nessuno”, ora non perde occasione per scambiare due parole con i fan di ieri e di oggi, soprattutto se si trova in oratorio, luogo che ancora oggi gli ricorda momenti di intensa gioia. 

 

Bergomi, cosa le viene in mente se le dico oratorio?

«Innanzitutto la Settalese, la squadra dell’oratorio di Settala, il paese alle porte di Milano dove sono cresciuto. Ricordo che c’era un  grande campo da pallone, “quasi a undici”, un vecchissimo cinema e una stanza con il biliardino e il ping pong. L’oratorio è stato la mia scuola di calcio e di vita: lì ho appreso il rispetto, l’amicizia e l’impegno, valori che ancora oggi considero fondamentali». 

 

Come è stata la sua infanzia? 

«Vengo da una famiglia “normale”. Avevamo un distributore di benzina, mio papà faceva autonoleggio e mia mamma cuciva a macchina, anche per le esigenze della parrocchia: lo fa perfino adesso che ha 87 anni». 

 

Una bella età... Ha imparato da lei a non mollare mai? 

«Sì, mia mamma è stata ed è una figura per me molto significativa. Distribuisce i giornali con la buona stampa e ancora adesso mi testimonia la fedeltà alla preghiera. Qualche tempo fa l’ho chiamata per dirle che sarei andato a trovarla e lei mi ha fatto presente che sarebbe stata impegnata con la recita del rosario e la Messa». 

 

Non mi dica che l’ha lasciata fuori di casa...

«No, sono andato insieme a lei in chiesa! Per mia mamma la fede è sempre al primo posto». 

 

Cosa significa per lei la  fede? 

«È qualcosa che ho sempre avuto dentro. Nella carriera calcistica, come nella vita privata, ho trovato sostegno nella preghiera. Conoscere i valori cristiani e avere alcune persone di riferimento mi ha tanto aiutato, ad esempio quando ho perso la Nazionale, nel 1991, e mi sono trovato addosso tante critiche. All’inizio la fede era solo sotto forma di richiesta: ricordo che facevo il segno della croce prima di entrare in campo per invocare la benedizione del Signore. Poi ho imparato a ringraziare Dio: spesso chiediamo aiuto per ciò che ci aspetta, ma è importante saper guardare con gratitudine anche al passato. Di recente ho sentito don Giovanni, il “mio” prete di Settala, e mi ha detto “Beppe, stai vicino a Gesù”. Le sue parole mi hanno toccato nel cuore: oggi prego il Signore di starmi vicino».

 

Ha un versetto del Vangelo che le parla più di altri? 

«“Se avrete fede come un granello di senape, potrete spostare le montagne”: mi ha accompagnato durante la carriera, lo leggevo prima di ogni partita». 

 

In campo la chiamavano “zio” per il senso di fiducia e responsabilità che, seppur giovane, emanava...

«È stato Giampiero Marini (collega all’Inter e in Nazionale, ndr) ad affibbiarmi il soprannome. A essere sincero, però, non ero così sicuro di me stesso: mascheravo dietro i baffi e l’aria seria, ma anche io, come tutti i ragazzi a quell’età, avevo le mie paure e le mie incertezze». 

 

A 18 anni è diventato campione del mondo. Come ha fatto a tenere i piedi per terra? 

«Sono andato avanti con serietà. Per fare il calciatore bisogna mettere in conto tanta fatica ed è importante saper dare il proprio contributo al gruppo. Alcuni miei compagni di squadra mi hanno anche fornito un grande sostegno nella vita. Oggi i ragazzi cercano eroi nel calcio, ma non credo ci sia bisogno di idoli quanto di testimoni. La vita non è semplice nemmeno per i calciatori. Come atleti bisogna sempre mettersi in discussione, la carriera non è lunghissima e si passa velocemente da momenti di gloria ad altri in cui tutto e tutti ti danno addosso». 

 

Lei è stato capitano dell’Inter  e della Nazionale. Si sentiva a suo agio nei panni del leader? 

«A dire la verità sono una persona timida e introversa. Però ho sempre pensato che per essere capitano bisognasse dare l’esempio: arrivare per primi e andare via per ultimi, essere in testa al gruppo durante ogni allenamento, prendersi la responsabilità di parlare con il mister e la dirigenza per portare avanti la tutela di tutti. Ho cercato di comportarmi sempre così». 

 

Lei ha perso il papà a 16 anni. Sua madre l’ha seguita anche sui campi da calcio? 

«No, anche mia mamma è molto emotiva. Mi ha seguito da lontano, sarà venuta una volta o poco più a San Siro. Quando c’erano le partite, andava al cimitero da mio papà e s’informava dei risultati solo una volta tornata a casa».     

Che tipo di giocatore è stato? 

«Sono stato un buon difensore. A gennaio sono stato scelto per la Hall of fame del calcio italiano (il riconoscimento della Federazione italiana giuoco calcio che celebra le figure più significative di questo sport, ndr). Se penso che sono partito dall’oratorio di Settala e non avevo nemmeno doti tecniche importanti... Ce l’ho fatta perché ho “giocato di testa” anche nei momenti di difficoltà». 

 

Come si definirebbe nel ruolo di padre? 

«Avrei voluto dedicare più attenzione ai miei figli e saper dare una qualità migliore al tempo trascorso assieme. Ora sto cercando di recuperare: sento che il rapporto con Sara, 18 anni, e Andrea, 21, sta crescendo». 

 

Qual è stato il momento più bello della sua carriera? 

«Non posso dimenticare il Mondiale in Francia nel 1998. Convocato a 35 anni, dopo esser stato lontano dalla Nazionale per sette anni, è stato un grande riscatto». 

 

Per tante stagioni ha poi allenato i giovani. Una bella sfida ai giorni d’oggi...

«Quando si allenano i piccoli bisogna mettere da parte l’orgoglio personale e pensare alla crescita e al bene dei ragazzi. Come Mister ho cercato di trasmettere ai miei giocatori quanto appreso sul campo e ai corsi per allenatore. Dicevo loro di  divertirsi e tirare fuori il meglio di sé. In serie A o con i dilettanti, bisogna sempre avere voglia di crescere e migliorarsi, tenendo stretti i propri sogni. Puntavo molto anche sul rispetto: viviamo in un tempo in cui c’è tanta arroganza e violenza nel linguaggio, soprattutto sui social network, ma nessuno merita di essere insultato». 

 

Tutti parlano degli anni in oratorio come di un tempo “mitico”. “Marachelle” lei non ne ha combinate?

«Ammetto di aver rubato qualche caramella e di essere entrato di nascosto in oratorio. Don Narciso, già anziano, lo teneva spesso chiuso. Allora aspettavamo che fosse impegnato con la Messa e scavalcavamo il muro! Preparavamo le reti con le corde per imballare il fieno, che trovavamo nei campi, e giocavamo a calcio. Era tutto bellissimo... fino a che il parroco non se ne accorgeva».

 

 

Alberto Chiara

http://www.famigliacristiana.it

 

 

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