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Il fattore V

Non si tiene mai abbastanza in considerazione il fattore V. Quello della forza di volontà che ti fa amare la vita così com'è; che, proprio perché in qualche modo mancante ti consente di assaporare meglio “tutto il resto”, quello che a noi sani sfugge.


Il fattore V

Ne fuggiamo lo sguardo, ogni qualvolta lo incrociamo per strada, su un mezzo pubblico, in una stanza affollata. Ne discutiamo la dignità e il valore umano, discernendo tra uomini e persone e pontificando su chi abbia il diritto di vivere e chi no e per quanto tempo e a quali condizioni.

Poi ce li ritroviamo in vasca, attaccati a uno sci d’acqua, su una pista d’atletica, in sella a una bici oppure a spingere a tutta forza le ruote delle carrozzelle in gare mozzafiato di sicuro fascino ed emozione.

Molti sono uomini maturi, tanti sono giovani, alcuni poco più che ragazzini: poche cose quanto le Paralimpiadi abbracciano un arcobaleno di età difficile da ritrovare in altre manifestazioni, soprattutto di tipo sportivo. Disabili, le Paralimpiadi sono per disabili. Questo dovrebbe già far intuire perché sono variegate: in questo termine stanno racchiuse tante sfaccettature, che diventano persino inevitabile che il risultato sia di grande fantasia. Si parla disabilità, certo ma si parla innanzitutto di sport. E ogni volta che si parla di sport, si parla di vita, di storie che si intrecciano, di occasioni inattese; perché la meraviglia è sempre di casa, quando l’inatteso bussa alla porta per farti provare nuove strade, nuovi percorsi e tragitti, nuove sensazioni ed emozioni. Quasi mai facili. Ma non per questo privi di fascino, entusiasmo e voglia di fare.

C’è chi ha la faccia tosta di dire che  "le Paralimpiadi di Londra fanno molta tristezza, non sono entusiasmanti, sono la rappresentazione di alcune disgrazie e non si dovrebbero fare perché sembra una specie di riconoscenza o di esaltazione della disgrazia" (P. Villaggio). Non voglio fare moralismi: sono strasicura che il primo approccio, in una società dell’immagine come la nostra, sia biecamente visivo, un Dov’è Wally? traslato nella ricerca del deficit degli atleti in gara in quel momento; ricerca facile nel caso di un deficit motorio visibile e facilmente individuabile, impresa invece più ardua invece nel momento in cui ci troviamo di fronte atleti con disabilità mentali (non sempre fisiologicamente inconfondibili). Lo trovo più che comprensibile e umanamente giustificabile. Anzi, trovo che la curiosità sia il portone della conoscenza, attraverso il quale aprirsi a prospettive sempre diverse del mondo, senza lasciarsi rinchiudere entro aspettative e modi di pensare consueti e già sperimentati. È il secondo passo che segue il comprensibile rifiuto, specie quando l’affacciarsi a questo mondo evidenzia i nostri deficit e le nostre mancanze di vario tipo: fiducia, autostima, fantasia, inventiva. Il conto è presto fatto: se io, sano, con gambe, braccia e cervello che non fanno una piega non sono in grado di andare ad allenarmi perché la pigrizia ha la meglio, è più che naturale che mi “roda” leggere tempi più bassi della media delle persone normali, però effettuati da paraplegici, non vedenti o ritardati mentali. Dà la misura di un fallimento dovuto unicamente a se stessi.

Del resto, la differente copertura mediatica di questa manifestazione in rapporto alle Olimpiadi ufficiali già mostra quanto attiri meno sponsor e più critiche, lasci inquiete le anime, ponga domande, e spinga a riflessione. Insomma, finisce col diventare un evento “scomodo”. E tutto ciò che è scomodo, se possibile, è evitato…

C’è un paradosso in tutto questo, evidenziato già da altri. Mi riferisco, in particolar modo a quegli atleti affetti da malattie genetiche, invalidanti e/o degenerative a partire dalla nascita. Penso che sia abbastanza irrinunciabile che il pensiero corra alla diagnosi prenatale e all’atavica discussione su cosa sia degno e cosa no, cosa renda una vita bella e cosa faccia preferire la morte. Ci sono, del resto, dati raccapriccianti che lasciano senza fiato. Nel Regno Unito la legge infatti permette l’aborto “per motivi sociali” fino alla ventiquattresima settimana di vita del feto (sesto mese di gravidanza), ma è possibile praticare aborti ancora più tardivi motivati da “malattie gravi del feto”. Da circa un anno i dati che si riferiscono a questa scelta sono stati resi pubblici, e si è venuto a sapere che tra le “malattie del feto” si considerano la spina bifida, la sindrome di Down ma anche difetti rimediabili come il labbro leporino, il piede torto e alcune malformazioni del palato. Questo tipo di aborti Oltremanica è aumentato di circa il trenta per cento dal 2000 al 2010.

Il pensiero corre a tanti atleti, che avrebbero potuto non esserci, in base ai criteri eugenetici più in voga. Questa “selezione pre – natale” ci avrebbe tolto dei campioni. Di esempi probabilmente ce ne sarebbero a bizzeffe. Mi limito ad uno abbastanza noto, almeno nel mondo dello sport: Tony Volpenstest. Ispiratore di un atleta più noto ai giovanissimi, per motivi cronologici (Oscar Pistorius), si tratta di un atleta statunitense, nato senza gambe e senza braccia poiché era focomelico. Vanta 4 medaglie d’oro e 5 record mondiali alle Paralimpiadi, nei 100 e 200 metri. Impensabile? Certamente sbaraglia tutte le convinzioni a riguardo di qualità e dignità della vita, annichilisce le pseudo convinzioni di chi racchiude la felicità della vita a venire unicamente in base al “saper fare” e lascia senza dubbio interdetti.

Il motivo è che non si tiene mai abbastanza in considerazione il fattore V. Quello della forza di volontà che ti fa amare la vita così com’è; che, proprio perché in qualche modo mancante ti consente di assaporare meglio “tutto il resto”, quello che a noi sani sfugge. E troviamo nelle gesta di questi atleti quella vitalità, quella sagacia, quell’incapacità di resa che troppo spesso manca a noi sani. Forse perché noi possiamo permetterci la resa. Mentre, per qualcuno, la lotta è l’unico vocabolo possibile dal giorno della nascita.

E, seguendo il motto “Se puoi sognarlo, puoi raggiungerlo”, Tony porta con sé i sogni di tutti e ci ricorda che nessun sogno è troppo grande per non essere raggiunto. Non tutti partono dalla linea di partenza. Alcuni partono dagli spogliatoi. Ma questo non significa che non siano in grado di raggiungere prima la linea di partenza e poi quella di arrivo. Ci vorrà magari più tempo, più allenamento, tanta grinta, un pizzico di fantasia e soprattutto una grande forza di volontà. Un mix che può rivelarsi uno di quei piccoli passi che contribuiscono a rendere il mondo migliore. Un passo alla volta.

Maddalena Negri

http://www.sullastradadiemmaus.it

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