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Il compito dei prof di lettere e il senso dei quattordicenni per la cultura uman...

Eppure loro alla letteratura ed alla poesia si appassionano. Persino alla grammatica, talvolta, che è tutto dire. E “invisibile” in classe, per loro, non sono mai stata: magari odiata, perché li massacro a forza di riassunti, temi ed esercizi di analisi logica, sì, ma indifferente no. Bisogna prenderli per mano.


Il compito dei prof di lettere e il senso dei quattordicenni per la cultura umanistica

da Quaderni Cannibali

 

Siccome è noto che noi prof abbiamo moltissimo tempo libero, leggevo l’articolo di Marco Lodoli su Repubblica “Addio cultura umanista, per i ragazzi non ha più senso”. E pensavo.

 

Pensavo, per esempio, che Lodoli e l’anonima collega di lettere che lui cita nell’articolo, affranta perché per i suoi alunni è “invisibile”, dal momento che quando spiega non se la fila nessuno, devono essere proprio sfortunati. Anzi, perseguitati entrambi da una jella nera ed atra, una sorta di maledizione atavica, un malocchio feroce appiccicatosi addosso a loro chissà per quale incantesimo. Perché ci vuole proprio sfiga (scusate il termine, parlo terra terra come i miei alunni, a volte), visto che entrambi insegnano, par di capire, in prestigiosi licei e quindi ad una platea di alunni anche parecchio selezionata all’origine, a ritrovarsi classi intere di zombi seminconscienti che non provano il benché minimo interesse per Dante e Manzoni, Catullo o Tucidide, la poesia, la storia e la letteratura.

 

A me, per esempio, questa esperienza manca. E sì che insegno in una scuola media persa in mezzo alla campagna veneta, zeppa di ragazzini fra gli undici e i quattordici anni che la “cultura umanistica” non intuiscono nemmeno cosa sia, hanno come unico pensiero quello di giocare con la Play Station o scaricare l’ultima app del cellulare; nella stragrande maggioranza dei casi, da grande sognano al massimo di fare il meccanico per smontare motorini, e l’aula di un liceo non la vedranno mai.

 

Eppure. Eppure loro alla letteratura ed alla poesia si appassionano. Persino alla grammatica, talvolta, che è tutto dire. E “invisibile” in classe, per loro, non sono mai stata: magari odiata, perché li massacro a forza di riassunti, temi ed esercizi di analisi logica, sì, ma indifferente no.

 

Ci sono le classi che fanno “muro”, per carità, e anche quei singoli alunni che per quanto tu ti affatichi e ci provi a coinvolgerli, niente, non ce la fai. Ma sono le eccezioni, non la regola. Ai ragazzini, di norma, la letteratura piace, perché la letteratura è raccontare storie, e sentirsi raccontare storie è un bisogno primario per ogni essere umano.

 

Certo, bisogna prenderli per mano. Nemmeno Dante ce l’avrebbe fatta ad attraversare Inferno e Paradiso, se Virgilio e Beatrice, generosamente, non lo avessero scortato con pazienza, spiegandogli ad ogni piè sospinto dov’era, cosa stava succedendo, chi avrebbe incontrato lì, perché era importante che ci parlasse.

 

Ma il nostro lavoro è proprio questo. Loro ci vedono come dei vecchi catorci insopportabili che raccontano di gente morta da secoli e pallosa. Sta a noi dimostrare che no. Fargli capire, fonti alla mano, che metà di quello che leggono oggi ha radici antiche: e allora via, prendere il testo di Harry Potter e fargli scoprire che il Basilisco non l’ha inventato la Rowlings, ma è il protagonista di una favola spietata e bellissima di Leonardo da Vinci; che Conan Doyle, quando inventava i racconti di Sherlock Holmes con Irene Adler (sì, quelli del film, avete presente?) copiava da un autore greco, Pausania. E poi leggere i Promessi Sposi, e costringerli, recitandoglieli come una commedia goldoniana, a prendere atto che sono divertenti, sono comici, pieni di colpi di scena e hanno un montaggio mozzafiato che dovrebbe essere studiato dagli sceneggiatori di telefilm. Che sono un buon punto di partenza per spunti sull’attualità, perché Renzo era un piccolo imprenditore tessile del Comasco, che trasferisce e delocalizza poi la sua attività a Bergamo, contando sugli aiuti di Stato della Repubblica di Venezia per le imprese del settore “lusso”, com’erano considerate le filande allora.

 

Bisogna spiegare loro, che non lo sanno, che la cultura umanistica non è una cosa per specialisti, ma quella che un domani ti serve, se farai il pubblicitario, ad inventare per il tuo prodotto uno slogan di successo, pieno di ritmo, allitterazioni, rime e di figure retoriche adatte a fissarsi nella mente del potenziale cliente per sempre; che la grammatica e la sintassi sono fondamentali per costruire un testo comprensibile per il tuo futuro sito web. Bisogna insomma far capire, ma credendoci noi per primi, che la cultura umanistica non è solo bella, ma è utile, anzi indispensabile: perché lo spot della Telecom non lo capisci se non sai chi erano Garibaldi e Mazzini, o Marco Polo, e metà delle pubblicità di profumi, quelle le cui foto le ragazzine ritagliano e attaccano sul diario, hanno dentro tante e tali citazioni di Storia dell’Arte da far provare, a chi le sa riconoscere, le vertigini.

 

Bisogna essere cattivi e spietati, a volte, e fargli sbattere il muso su tutte queste citazioni che loro non sanno cogliere, su questi retroscena che sono destinati a non intuire mai se non imparano qualcosa di quella benedetta cultura umanistica che credono inutile e noiosa. Ricattarli, spiegando che la cultura umanistica è qualcosa di affine ad una setta segreta, parla agli iniziati per indizi, e se li sai cogliere bene, sennò sei fuori, fai parte degli altri che sono esclusi, pussa via!. Che il potere vuol farti credere che non è necessario sapere il codice, ma ti racconta fandonie per tenerti fuori, perché da sempre il potere poi è nelle mani di chi sa usare bene i congiuntivi, sa scrivere riassunti e inventare slogan di effetto. E che anche chi apparentemente non è colto ma ha fatto i soldi, poi si circonda di chi è colto, se vuole mantenerli, perché persino Briatore, quanto deve scegliersi un aiutante da pagare con cifre a quattro zeri, prende alla fine quello che sa le lingue, ha una laurea, un master e un italiano corretto e fluente, mentre l’entusiasta ignorante con la terza media presa a stento lo lascia a casa, anche se gli era magari simpatico, eh.

 

E’ un lavoro massacrante trovare il modo di far arrivare ai nostri alunni questo messaggio, scovare ogni giorno nuovi esempi da portare, sconfiggere punto per punto i loro pregiudizi (che poi son quelli di tutta la nostra società) dimostrando che sono falsi e stupidi. Ma è il nostro lavoro di insegnanti, e di insegnanti di materie umanistiche in specifico.

 

Perché noi non siamo là per curarci di quell’unico illuminato e sensibile fanciullo che scrive sonetti, legge Platone e compone madrigali nel chiuso della sua stanza dopo aver frequentato con profitto alla mattina le lezioni di un raffinato liceo classico d’élite. Quello è una eccezione statistica, e ce la farebbe benissimo anche senza di noi. Il nostro obiettivo sono tutti gli altri, quelli che non odiano la cultura umanistica, ma semplicemente non la conoscono perché quello che viene presentato loro è solo un riassunto di cose astruse, di poeti morti, inutili e lontani dalla realtà, fatto da insegnanti altrettanto noiosi perché, quando viene loro chiesto di indicare un fine pratico per usare tutte le conoscenze che pretendono gli alunni acquisiscano, non lo sanno indicare.

 

Io adorerei insegnare in un liceo classico, per fare i raffronti con i giornali alla mattina e spiegare che Tucidide faceva giornalismo d’inchiesta, usando le tecniche che oggi sono alla base dei programmi come Report, o che Erodoto è la miglior guida per indicare come vanno usate e citate le fonti; per far capire che la teoria della Relatività di Einstein può essere considerata lo sviluppo di una intuizione neoplatonica di Plotino; che si può andare a caccia di citazioni di Catullo e Properzio e Ovidio nei testi di De Andrè, ma anche di Samuele Bersani, Jovanotti, Malika Ayane; che il rap ha la stessa struttura metrica degli esametri omerici. Non lo faccio perché lavoro alle medie, ed i miei studenti sono troppo piccoli per queste disquisizioni qui.

 

Però l’altro giorno, quando abbiamo letto in classe prima “In morte del fratello Giovanni” di Foscolo e poi l’originale carme di Catullo a cui è ispirato, e, dopo averglielo fatto sentire in latino e in metrica perché me lo avevano chiesto, e averli fatti ragionare sul testo, alla fine di un piccolo serrato dibattito, in cui due partiti si son confrontati, han deciso che Catullo era meglio come poeta e lo sentivano più vicino a loro: «Perchè sa, prof, Foscolo si sente che voleva bene alla sua famiglia, ma non riesce mica ad andare avanti, è come bloccato là, Catullo si dà pace, alla fine, e poi è più asciutto.» io il mio piccolo contributo alla preservazione della cultura umanistica presso le giovani generazioni sento di averlo dato, ecco.

Mariangela Galatea Vaglio

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