Nel 1938 duecentosessantotto studenti di Harvard (tutti maschi, le donne non erano ancora previste) diventarono oggetto di studio per il resto della loro vita. Norman Mailer e Leonard Bernstein furono respinti dalla ricerca, e nessuno sa perché, gli altri dovettero rispondere per sempre a tutte le domande più imbarazzanti (e anche sottoporsi a molte misurazioni). Il famoso studio Grant, dal nome del primo finanziatore, aveva lo scopo di studiare l’umanità di belle speranze e con più probabilità di lunga vita per scoprire la chiave del successo, le differenze fra estroversi e introversi, capire le evoluzioni, gli adattamenti, la frustrazione, la salute degli uomini nel mondo che stava diventando moderno. Doveva essere una cosa piuttosto scientifica, adatta a mettere a fuoco le possibilità di miglioramento (anche in base alle caratteristiche fisiche: spalle larghe e fianchi stretti aiutano di più a farsi strada, e fra le cavie c’era anche John F. Kennedy, ma il suo file è sigillato fino al 2040), ed è diventato molto di più, è diventato la storia della crescita umana e della ricerca della felicità. “Triumphs of experience” è il titolo del libro scritto da George E. Vaillant, psichiatra che nel 1966 ha preso in mano lo studio, a trent’anni, ed è cresciuto e invecchiato con lui.
E con i novanta sopravvissuti di quel 1938, piuttosto anziani ormai (parecchi sono stati uccisi dall’alcol), che raccontano i loro rimpianti e quello che hanno invece capito e come si sono adattati alla vita. Il risultato, per gente snob che era partita cercando di fornire risposte alla sete di carriera, di denaro e di affermazione sociale, è banale, oppure sorprendente: l’amore è la risposta. Con una buona salute fisica e soprattutto mentale, se ci si guarda intorno non c’è nulla di più importante. Un buon matrimonio (anche secondo, o terzo), persone a cui volere bene, cose generose di cui occuparsi. Per capirlo però, anche lo psichiatra Vaillant, padre disconnesso e narciso di figli nati da vari matrimoni, molto concentrato sul successo personale, è dovuto invecchiare. Negli anni Settanta aveva messo nella casella “infelice” un uomo che non aveva una dimensione lavorativa stabile, che dopo Harvard si era trasferito in Vermont a gestire una fattoria, poi aveva fatto il falegname, il pittore, il giornalista, il contabile in un distributore di benzina, aveva divorziato, poi chiesto un prestito, si era risposato e aveva detto nel rapporto Grant: “Ho imparato a essere più gentile, più empatico, a essere tollerante”.
Secondo Vaillant, erano gli anni Settanta, quella dichiarazione era soltanto una prova di mancanza di una chiara identità, un tentativo di negare i propri bisogni e proiettarli sugli altri. Era un cattivo risultato, visto con gli occhi di un rampante narciso. “Mi ci è voluto del tempo per capire che il senso consolidato della vita di Boatwright era prendersi cura degli altri”, ha scritto lo psichiatra. E che è questo, alla fine della vita, il segreto della felicità e il trionfo dell’esperienza. Negli anni Settanta per essere infilati nella casella “buon risultato” dello studio Grant, bisognava avere trascorso una giornata aggressiva, colto opportunità, superato qualcuno. Era la giovinezza e l’immaturità. Alla fine dello sviluppo personale la domanda è: che cosa hai imparato? Ho imparato che non posso cambiare il passato, ma provare a capirlo e rimodellarlo. Ho imparato che non sono niente senza mia moglie, senza mio figlio, senza il mio amico, senza aver fatto qualcosa di buono per loro. Sette decenni di interviste e inseguimenti di quegli stessi uomini in ogni parte del mondo non hanno fruttato la chiave del successo, ma il segreto della felicità: diventare grandi, prima che vecchi.
Di Annalena Benini
Tratto da http://www.ilfoglio.it e Quaderni cannibali
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